Erinni giustiziere-vendicatrici contro le concezioni maschiliste
Silvana Grasso
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«Fuori di qui! Sgomberate il tempio se non volete che vi colpisca con un mio alato bianco serpe vibrato dall’aurea corda dell’arco, se non volete nel dolore vomitare a grumi, a fiotti di nera schiuma, il sangue che avete succhiato agli uomini uccisi. A voi non è lecito avvicinare questa dimora» (Eschilo, Eumenidi).
A chi con tale durezza di minaccia rivolge l’ordine di sgombero dal suo tempio il dio Apollo? Chi assedia il suo tempio, la sua sacra dimora, chi minaccia il suo ospite Oreste, figlio d’ Agamennone e Clitemnestra?
Sono le Erinni destinatarie dello sfratto, semidivinità della vendetta, ctonie primitive nel pantheon ellenico, nate da gocce di sangue e sperma, cadute su Gaia, La Terra, quando Crono mutilò il padre Urano. Giustiziere vendicatrici dei crimini, soprattutto dei crimini di sangue parentale, quale il parricidio. Non nel tempio d’Apollo possono aver sede, ma «là dove tagliano le teste, dove strappano gli occhi, dove sgozzano, là dove si vedono mutilazioni e lapidazioni, là dove si odono mugghi e gemiti di gente trafitta…» (Ibidem).
Le Eumenidi sono l’ultimo “atto” dell’unica trilogia superstite della Tragedia greca. Assieme all'”Agamennone” e “Le Coefore”, “atto” primo e secondo della trilogia, saranno solo tra poche settimane rappresentate a Siracusa, nel teatro greco. A ragione diciamo “atto”, perché la trilogia, scritta in tre drammi, è di fatto argomento unico nella fabula-mito che racconta, seppure scandita in tempi e/o generazioni diverse.
Dalla morte del grande dux-wanax, atride Agamennone (“Agamennone”), ucciso dalla moglie Clitemnestra, subito dopo il trionfale ritorno ad Argo da Troia, al matricidio perpetrato da Oreste (“Coefore”), figlio d’entrambi, al processo del giovane e alla sua assoluzione, grazie al “fatale” voto d’ Atena che, nata solo da padre, non conosce dolcezza d’utero né amor di madre (“Eumenidi”).
Torniamo alle Eumenidi, cioè alle terribili implacabili Erinni che, alla fine della tragedia, per indiscussa volontà d’ Atena, dea ex machina della tragedia, diventeranno «di buon animo», benevole, da implacabili e funeste che furono.
Allo sfratto da parte d’ Apollo segue una interessantissima sticomitia tra il coro, rappresentato dalle Erinni, nella persona della corifea, e il dio.
Le Erinni accusano Apollo d’essere responsabile del delitto di Agamennone, di cui è esecutore il figlio Oreste: «del delitto di Oreste non basta dire che sei complice: tu solo ne fosti l’autore, tu solo ne sei responsabile… col tuo vaticinio gli ordinasti di uccidere sua madre». A loro Apollo risponde «col mio vaticinio gli dissi vai a vendicare tuo padre» (Ibidem).
In apparenza, per chi non conoscesse le sfumature al vetriolo, i sottintesi, del concetto di hybris e di colpevole-innocenza del “tragico” greco, ad una lettura contemporanea, ignara del dedalo di significanti e significati, le Erinni ed Apollo stanno pleonasticamente ribadendo lo stesso concetto.
Ma una lettura testuale e, soprattutto, contestuale ci conduce ad un’ipotesi tragica, quanto immorale. L’ ipotesi è che non ci sia altro modo che uccidere la madre per quella vindicatio patris, imperata da Apollo.
E il figlio, il ragazzo Oreste? Per essere in regola con l’imperio del dio Apollo, vendicando il padre, deve uccidere sua madre, restando orfano due volte, di padre e madre. Sembra un assurdo teatrale, invece è un perfetto “logico” sociale, ai tempi cui si riferisce la tragedia, il V secolo a. C.!
Lasciare invendicato il padre “assolvendo”, sia pur per amor di figlio, la madre, comporterebbe lo scellerato principio che l’auctoritas del pater familias, comunque del maschio, e ancor più del patriarcato, possano impunemente cedere alla femmina, ma ancor più al matriarcato: «Non è la stessa cosa che muoia un uomo nobile, onorato di scettro che Zeus gli diede e tanto più per mano di donna, non da ostili dardi… tornato dalla spedizione, dopo aver compiuto tante gesta nel modo migliore, lei lo accolse con benigne parole, gli preparò il bagno nella vasca… alla fine lo colpì dopo averlo irretito in un bel peplo. Questa la morte dell’ eroe da tutti venerato» (Ibidem).
Il mito, nella tragedia, ha valore di megafono sociale, tutti sapranno che non impunemente una donna uccide lo sposo, che l’hybris del matriarcato verrà punita nel modo peggiore. Dalla mano d’ un figlio. Un delitto da madre a figlio. Se turpe è alla nostra coscienza cattolica l’ uxoricidio, ancor più lo è il matricidio, che, invece, nella coscienza laica e suddita della societas greca, cui paideuticamente si rivolge il “Teatro”, per fabule e miti, viene consacrato come atto dovuto a tutela dell’ordinamento e dell’ordine sociale. Un ordinamento sociale che non ammette deroghe al principio di patriarcalità e di cui il “teatro” diventa uno strumento formidabile di risonanza sociale.