I ribelli autonomisti
Giovanni Cassenti
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Avevo facilmente superato le scuole elementari e un parroco di Sutera continuò a insegnarmi anche qualche cosa di latino. Poi seguii mio padre a Milocca in cerca di miglioramento finanziario.
Ma la situazione economica della famiglia non permetteva nessun agio, per cui all’età di diciassette anni decisi di lasciare la borgata che non soddisfaceva la mia sete di sapere e decisi di emigrare.
Ma dopo soli cinque anni passati negli Stati Uniti, dovetti rientrare per una grave malattia che i medici mi dissero poteva guarire solo con l’aria nativa e in verità successe il miracolo di restare vivo. Rimase il rimpianto per quello che avevo lasciato. La mia salute si rimise ma piombai nuovamente in quel buio completo di un borgo arretrato e senza i più elementari servizi.
Io che da quel buio completo di vita di campagna ero stato proiettato dove la civiltà brulicava, avevo conosciuto Palermo, mi ero imbarcato e dopo venticinque giorni di traversata ero giunto a New York per poi vivere cinque anni a New Orleans città all’avanguardia degli Stati Uniti. Ingoiai la pillola amara del rientro alla residenza di origine ma il consiglio dei medici non fu inutile e la mia salute si rimise.
Riprendendo le diverse attività non mi stancavo di enumerare le enormi differenze di vita ai vecchi e nuovi amici con i quali riconoscevamo che tale stato di cose di arretratezza della nostra borgata doveva finire, dovevamo muoverci, era necessario e le sincere adesioni e approvazioni si moltiplicavano.
Ormai avevo venticinque anni (1910) e l’amico Salvatore Angilella poco meno di me, per le comuni idee non tardammo a stringere una cordiale amicizia che ci spingeva a vederci spesso. Diventammo come due corpi ma una sola idea: quella di diventare promotori di tutte le battaglie necessarie per redimerci dallo stato di schiavitù e diventare indipendenti dalle due matrigne Sutera e Campofranco, ne facemmo una specie di giuramento.
Anche Angilella aveva preso visione di diversi centri evoluti, anch’egli sentiva la vergogna di dire che abitava nella borgata Milocca, questo sentimento comune fece sì che a tutti quanti incontravamo raccontavamo il nostro progetto di staccarci da Sutera e Campofranco iniziando forme di proteste, di ricorsi, di appelli alle Autorità, insomma fare di tutto contro lo stato di abbandono in cui giacevamo.
Nonostante incontri con qualcuno che ci tagliava le gambe, la maggioranza dei contadini delle due borgate approvava la nostra iniziativa che, modestia a parte, sapevamo propagandare con educazione e modi civili anche se nessuno dei due era diplomato o laureato. Per molti brizzolati e più grandi di noi eravamo due giovani uomini che si agitavano ma non avevano ancora mai dato prova concreta di serietà e intelligenza.
Ma non ci mancava la cultura nè lo slancio per affrontare nei limiti della Legge ogni questione attinente la giustizia ma sconoscevamo le procedure e il tempo ci sembrava lungo, convinti per la giovane età che tutto si potesse raggiungere mediante il tiro di un grilletto di fucile.
In nostro soccorso e dei principali amici che si aggiunsero a noi arrivò l’avv. Carlo Ingrascì oriundo da Serradifalco, lo stesso comune di provenienza degli Angilella, l’avevamo conosciuto per alcune pratiche di vertenze civili e avevamo visto la sua preparazione e come fosse considerato e temuto nel nisseno.
Nei giorni che seguivano altri facevano atto di adesione, diventavano sempre di più e tutti degni di fiducia, persone serie e con l’espressione sincera che si notava nel loro volto e nel loro modo di parlare. In certe serate si stava seduti assieme più del solito, specialmente con i signori Cannella Giuseppe, Buttaci Antonino, Scalia Calogero, Falletta Ignazio e qualche altro. In queste sedute decidevamo le mosse da fare per costiutire le basi per formare il movimento pro autonomia.
Tutti questi incontri cominciavano a dare fastidio. Qualche volta che passeggiavamo insieme veniva facile incontrasi con alcuni “nababbi” della borgata e con alcuni “speronati” che portavano gli stivali lucidati. Notavamo che il loro saluto era forzato, distratto, il fatto ci dava fastidio ma ci sforzavamo di non farlo capire.
Diventava sempre più notorio che quanto noi iniettavamo al popolo era di interesse comune e non particolare o personale. Tutti mettevamo a conoscenza comune le notizie del passato, ma l’amico Totò Angilella pur essendo curioso di conoscere qualche particolare, alla fine rispondeva che più di tutto interessava il domani e non il ieri.