Nel cuore della Sicilia c’è un monastero: è a San Martino delle Scale (ma non a Palermo)
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C’è un posto in Sicilia dove si respira una storia diversa. Un posto dove non è difficile potere, ancora, ascoltare gli echi di rumori e vite passate. Un luogo, nel cuore dell’isola, dove è possibile chiudere gli occhi e ritornare indietro nel tempo e trovarsi di fronte a uomini che insieme lavoravano, studiavano e pregavano, quasi incessantemente.
Questo particolare angolo o se preferite, periferia della Sicilia è l’antico monastero-fattoria di San Martino delle Scale di Milena, nel nisseno e non di Palermo. Si avete letto bene, di Milena.
La fattoria-monastero, infatti, è appartenuta all’Ordine dei Padri Cassinensi, del prestigioso e rinomato Convento di San Martino delle Scale a Palermo.
Direte voi, inusuale, secondo le distanze geografiche e territoriali dell’epoca, eppure è così. L’antico feudo di Milocca vide come suo ultimo proprietario laico il barone Giacomo Capizzi.
Quest’ultimo, ad un certo punto della sua vita, desideroso di abbracciare la fede cattolica, si fece monaco e donò l’intero latifondo ai monaci benedettini dell’Abbazia di San Martino alle Scale di Palermo.
Da allora e senza nulla togliere agli antichi fasti del passato, il territorio ha veduto e vissuto, con la presenza dei monaci, il suo periodo migliore.
Quest’ultimi, infatti, svolsero un ruolo centrale nella vita economica e sociale del territorio milocchese, sino alla sua interruzione che avvenne nel 1866, anno della famosa soppressione e del conseguente scorporo dei beni ecclesiastici.
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Nel 1700, su quel che rimaneva di una preesistente struttura, con tutta probabilità una torre di avvistamento ampiamente fortificata a controllo della Sicilia interna, i monaci benedettini diedero il via e posero la prima pietra per quella che sarebbe divenuta, a breve, un’imponente opera di edificazione, con un impianto riferibile al modello delle Masserie della Sicilia Occidentale, che organizzavano i vari ambienti attorno ad una corte regolare.
I padri diedero vita ad un nuovo edificio senza tralasciare il senso della fattoria e aggiunsero un mulino, il palmento ed un oleificio. Il progetto fu affidato agli architetti Giuseppe Venanzio Marvuglia ed Ignazio Marabitti e altre maestranze intervennero nelle pitture. I due portali scolpiti della foresteria e della Chiesa furono opera del Marabutti, mentre il progetto in generale e la scala centrale appartengono al Marvuglia.
La complessa ed articolata struttura si apriva con una foresteria ed una piccola chiesa per il culto che insieme contribuivano a comporre il prospetto principale orientato a nord.
Entrando e superato l’arco di benvenuto, sormontato questo da un piccolo corpo che serviva come guardiola per l’importante controllo visivo, si raggiungeva una corte dalla forma regolare, caratterizzata per l’intero del suo lato lungo, da un ampio corpo che si stagliava più alto degli altri, dove al primo piano vi erano ubicate le celle dei monaci, ed un ufficio amministrativo.
Questo piano si raggiungeva tramite una scalinata monumentale quasi simmetrica; varcato un secondo passaggio coperto del tutto e simile al primo, si accedeva poi in un’altra corte dalle dimensioni più modeste della prima, a sinistra era presente una parete con un sistema di archi a tutto sesto, probabilmente una tipologia di stalle aperte, dove in poco tempo si sarebbero allineate una serie di abitazioni non più monumentali ma ad uso modesto come veri e propri nuclei abitativi.
Tutte le stanze dell’edificio religioso avevano un soffitto a crociera arricchito da stucchi ed erano arricchiti da quadri, anch’essi con delle cornici a stucco.
Ciò che fece da vero e proprio propulsore per l’attività del feudo, non fu il passato organigramma ma la cosiddetta formula dell’enfiteusi.
Con questa pratica, i monaci del convento, diedero in affitto ai contadini provenienti dei paesi limitrofi di Sutera, Campofranco ed in minima parte Grotte, Aragona e Racalmuto, la possibilità di pieno utilizzo e di coltivare modesti appezzamento di terra che erano sufficienti alla loro sussistenza.
In questa precisa fase, la presenza contadina in loco non era ancora del tutto stabile. Solo successivamente i contadini trasformarono i ricoveri ed i loro magazzini che avevano in loco, costruendovi sopra e trasformandoli così in vere e proprie case, per interi gruppi familiari, o parentali, dando di fatto vita alla costituzione delle Robbe raggruppate poi durante l’autonomia in quindici villaggi.