«Il degrado della zona del Dubini»
Enzo Scarlata
.
Seguo da qualche tempo sulla stampa locale le vicende che riguardano e hanno riguardato il Dubini, il suo parco, il suo degrado e, non ultima, il diniego di ingresso ai volontari benemeriti di Legambiente che chiedevano solo di fare un po’ di pulizia. Non è nelle mie intenzioni entrare nel merito delle varie vicende che hanno interessato il recupero della struttura. Di ciò cominciai a sentirne parlare nel giugno del 2004 (purtroppo non sono in possesso di notizie precedenti), quandoci fu un tentativo di stipulare una convenzione con l’Associazione “Forever” onlus per la cessione in comodato d’uso che avrebbe permesso a questa Associazione di utilizzarlo per i suoi scopi sociali, specie in favore dell’infanzia. Non mi pare che la cosa sia “quagliata”.
E qui mi fermo perché non ho altro da dire se non per raccontare una favola che si può senz’altro intitolare “C’era una volta il Dubini” e che la può raccontare è qualcuno che è a conoscenza, nelle grandi linee, delle vicende, concluse, con il trascorrere degli anni, con la sua distruzione. Dipendente della sede Inps di Caltanissetta dall’Aprile 1968 al 1997, ebbi molte occasioni di recarmi in questa struttura, allora gestita amministrativamente da questo Istituto, fino a quando, disgraziatamente, venne costituito in Ente ospedaliero con L. R. del Luglio 1973 per il disposto di una legge nazionale del 1968. L’Ospedale venne consegnato nel Dicembre del 1973 ed è da qui che inizia il suo degrado.
Era una struttura meravigliosa, costantemente soggetta a tutela manutentiva. Ordine, igiene e pulizia regnavano sovrani, non fosse altro perché “ospitava” un certo tipo di malati (evito di usare quella brutta sigla che li distingueva). Sui pavimenti tirati a lucido dal personale di pulizia vi si poteva mangiare. Vi operavano medici, tecnici e impiegati di prim’ordine, operai (allora si diceva così) qualificato tra elettricisti, idraulici, giardinieri e quant’altro. E che dire dei cuochi, veri chef di ristoranti a 5 stelle. I prodotti utilizzati, dalla carne al pesce, dalle verdure alla frutta, ai dolci dovevano essere di prima qualità e ciò veniva accertato continuamente dal direttore dell’Inps, a tutto vantaggio dei degenti.
Ma è sul parco che voglio ritornare. Vi crescevano piante rare, gli alberi venivano potati con regolare scadenza. Le aiuole erano sempre fiorite e pulite grazie all’amorevole cura che vi mettevano i giardinieri, quelli con la “G” maiuscola, Le siepi venivano sfoltite e potate con geometrica precisione. Uno di questi, a cui posso senz’altro attribuire la qualifica di “topiario” (arte topiaria, quella dei giardinieri di potare in forme geometrico o bizzarre piante e arbusti; cfr. Zingarelli) continuo la sua opera presso il S. Elia dove certi alberi venivano potati in modo da farli sembrare delle sculture, come quelli si possono vedere nel film “Edward, mani di forbice”. Ai tempi della famosa “Coppa dell’Amicizia” a cui l’Inps partecipava con notevole successo, grazie anche al notevole apporto dei dipendenti del Dubini (vi partecipò anche chi scrive, solo per una partita a causa di infortunio di gioco). I componenti della squadra andavano a fare footing proprio dentro il parco per poi passare al campetto dell’annessa Azienda Agraria, come era allora chiamata la zona limitrofa e posso assicurare che ne uscivamo rigenerati. Sento ancora l’odore di resina che colava dai pini.
E chiudo con un episodio in cui sono stato coinvolto e risale a tanto tempo (purtroppo non ricordo l’anno).
Un giorno mi telefona un’impiegata o assistente sociale la quale aveva bisogno degli stampati per l’istruzione delle pratiche riguardanti quel tipo di “malati”. Questa impiegata mi disse che li aveva richiesti da tempo ma senza esito. Pur non essendo direttamente responsabile, mi sentii mortificato e promisi che glieli fatti avere subito e così, prelevando direttamente dal magazzino i moduli richiesti, mi recai di persona al Dubini. Volendo descrivere lo stato pietoso in cui trovai quella che era una bellissima struttura non basterebbero trenta cartelle. Per trovare l’impiegata attraversai quegli ampi corridoi che una volta erano lucidati a specchio. Trovai invece pavimenti divelti, pacchi, materiali di ogni genere, scaffali ammassati dove capitava, muri imbrattati e, all’esterno, un parco abbandonato, Insomma, se dicessi che era peggio di un ospedale africano offenderei la memoria del famoso Dr. Arbert Schweitzer che diresse l’ospedale di Lambarené, nel Gabon, in Africa. E qui finisce la favola. E anche un bel ricordo.
Lascia un commento