Viaggio tra le antiche osterie un tempo frequentate in città specie dai minatori. Quasi tutte erano ubicate nel centro storico. Quella volta che zolfatari pestarono l’oste accusato di avere annacquato il vino…
Insieme per un “tocco” di vino
FRANCO SPENA
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Anche a Caltanissetta le osterie, un tempo, si può dire che erano per molti luogo dove si poteva passare la serata bevendo vino e mangiucchiando frattaglie, tra una chiacchiera e l’altra, con seguito spesso di sfoghi dopo l’inevitabile ubriacatura, il tutto con contorno di risate e divertimento, ma talvolta anche con risvolti poco piacevoli.
Le osterie si possono, dunque, considerare una sorta di antesignane degli odierni bar-pub, ma solo per uomini, dove ci si ritrovava in compagnia per ingannare piacevolmente le serate e, soprattutto, farsi delle solenni bevute.
E a proposito di bevute, da ricordare quelle che rientravano nel cosiddetto”tocco”, un gioco durante il quale si beveva il bicchiere di vino “tutta ‘na tirata”, in un solo colpo, e nel quale gli avventori si mettevano d’accordo facendo squadra per fare ubriacare qualcuno di loro o per farlo bere il meno possibile.
Soprattutto per i nostri minatori l’osteria, “‘a taverna” come veniva chiamata, era il luogo di ritrovo naturale quando il tempo glielo consentiva dopo il duro lavoro passato nel sottoterra. Le osterie infatti erano, come detto, ambienti per soli uomini dove si beveva mangiando spesso ceci, fagioli, brodo di carne, o ancora coda bollita, piedini di maiale, “carcagnola”, trippa “a stricasali”, interiora e sanguinaccio, per dire di alcune vivande.
Durante il periodo pasquale si era soliti mangiare anche uova sode, lattuga e carciofi.
Molti, a tarda sera, uscivano dall’osteria traballando e arrivavano a casa camminando a zig zag. Non era insolito, a seguito della solenne sbornia, vedere qualcuno mettersi anche a piangere e, chiamando l’amico “ma frà”, mettersi a raccontare problemi e disgrazie.
“Ti vugliu beni cumu un frati” diceva qualcuno nello sfogo, rivolgendosi a chiunque si trovasse nell’osteria col quale attaccava bottone.
Ma talvolta c’era anche il risvolto meno piacevole dell’ubriacatura, cioè quando uscendo dalla bottega, magari per motivi futili, qualche avventore poteva mettere mano al coltello.
Quando era il periodo, si metteva in piazza, davanti al chiosco di Giannone, il fratello di “Giuvanni”, uno storico fruttivendolo che si trovava all’angolo tra la Badia e la via Re d’Italia, ” ‘a strata ‘e santi”, che vendeva con un’ape le “acculazzate”. Molti ne compravano alcune, le portavano in osteria e le mangiavano, tra un bicchiere di vino e un altro, intingendole in un pizzico di sale.
Di osterie ce n’erano diverse in città. La più antica era quella di Carmineddra, prima in via Palermo, poi a “Sant’Antonino”, l’attuale piazza Marconi; ma ce n’erano altre disseminate nel centro storico.
Tra queste c’era quella di Donna Titina in via Arco Calafato, molto nota per la bontà del suo brodo di carne.
Altre erano tra la via Palermo e la via Alaimo nel quartiere Provvidenza, e la via XX Settembre. Ce n’erano ancora nelle stradine tra la via Re d’Italia e corso Umberto e alla “strata ‘a foglia”.
Tra l’avventore e l’oste si veniva a creare un rapporto confidenziale e di amicizia tanto che quest’ultimo veniva incontro ai gusti dei suoi clienti abituali facendo credere di riservare un trattamento speciale per ognuno di loro, servendo spesso, a loro insaputa, del vino annacquato in modo che non si ubriacassero subito e si trattenessero più a lungo “a taverna”.
Per i frequentatori era quasi un orgoglio non bere acqua perché, come si dice, “l’acqua si nni va nni spaddri”. Così capitò che uno dei minatori che frequentava una taverna con gli amici, si ammalò di silicosi, una malattia che colpiva spesso gli zolfatai e, ricoverato in ospedale, di conseguenza gli riscontrarono quella che veniva detta l’acqua nelle spalle.
Gli amici non riuscivano a tacitarsi di come fosse possibile una cosa simile, poiché il collega, assieme a loro, beveva soltanto e rigorosamente vino. Non ci potevano credere. Rintracciarono il medico che lo curava e questi gli fece vedere che, tirandola con una siringa, usciva fuori dalle spalle dell’acqua.
Davanti all’evidenza, si convinsero che l’oste della taverna che frequentavano li avesse ingannati non offrendo loro del vino sincero ma abbondantemente annacquato.
Fu così che, sentendosi imbrogliati, quando l’amico fu dimesso dall’ospedale, si recarono in osteria, presero a botte l’oste, misero a soqquadro la taverna e ruppero a bastonate molte botti di vino.