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Archive for 2 novembre 2014

Quando da bambini si andava al cimitero

Nonna Melina

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nonna-melinaIniziai ad andare al Cimitero, in compagnia delle cugine e delle amiche, il 2 Novembre.

Solo per la ricorrenza dei Defunti restava aperto il cancello per permettere ai parenti di vedere i loro cari sepolti. Ed era anche demoralizzante questa visita, alcuni uscivano subito perché i parenti piangevano e gridavano rinnovando il momento dell’addio specie per quelli che erano morti da poco o per giovane età o per incidente.

Durante l’anno il cancello del cimitero si apriva solo per la sepoltura.

Non c’erano molti fiori e quei pochi provenivano dal proprio orto o coltivati nei vasi in casa.

tombe vecchieL’unica tomba gentilizia a forma di cappella era quella di don Salvatore Noto. Poche altre erano tutte in gesso, in gran parte sotterranee per cui si vedevano muricciattoli bassi ricoperti di tegole.

La quasi totalità dei defunti venivano interrati e ricoperti a forma di tumolo con la stele e la croce, in campetti diversi che si alternavano: dopo un certo periodo di anni, il campo che si saturava per primo veniva ripulito e i resti finivano nell’ossario comune ed era pronto per altre sepolture.

Tutte avevano una Croce, ma mancava il nome e anche le date di nascita e morte.

Al dottore Sapienza, medico condotto del nostro paese, era morta una giovane figlia, suicida per amore si diceva. Il padre fece costruire una tomba in gesso in fondo al recinto e vi mise la foto della figlia, era l’unica in tutto il cimitero. La nostra infantile curiosità ci portava a visitarla e ammirare la bella giovane della foto morta innanzi tempo.

 

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Resuscitation

C’è vita dopo la morte?

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a0C’è vita dopo la morte: ecco cosa succede quando il cuore non batte più.
Quando si muore si sente qualcosa? Si esce dal proprio corpo? O ancora, cosa si prova?

Ora a queste domande risponde una ricerca scientifica che ha raccolto i racconti delle persone che hanno vissuto un’esperienza di premorte e poi sono tornate a vivere. Lo studio, pubblicato su Resuscitation, è stato condotto dall’Università di Southampton. Sono stati sentite oltre 2mila persone che hanno subìto un arresto cardiaco in 15 ospedali britannici, americani e austriaci e le analisi hanno rivelato l’esistenza di una “finestra di consapevolezza” di alcuni minuti dopo che il cuore ha smesso di battere. Quasi il 40% dei sopravvissuti a un arresto cardiaco, infatti, descrive un qualche tipo di coscienza nel periodo di tempo in cui erano clinicamente morti, prima che il cuore ripartisse.

a1Le esperienze –

Un uomo addirittura ha ricordato di aver lasciato il suo corpo e di aver assistito alle manovre di rianimazione da un angolo della stanza. Nonostante sia rimasto “morto” per tre minuti, il 57enne di Southampton coinvolto nella ricerca ha ricordato le azioni degli infermieri nel dettaglio, descrivendo persino il suono dei macchinari.

“Sappiamo che il cervello non può funzionare quando il cuore smette di battere” spiega al Telegraph il coordinatore del lavoro, Sam Parnia, ricercatore un tempo alla Southampton University e oggi alla State University di New York. “Ma in questo caso la consapevolezza cosciente è continuata per più di 3 minuti nel periodo in cui il cuore non batteva, nonostante il cervello si disattivi 20-30 secondi dopo che il cuore si è fermato”. E non si tratta di immaginazione o autosuggestione. “L’uomo – prosegue Parnia – ha descritto tutto quello che è accaduto nella stanza. Ma cosa ancor più importante, ha udito due beep di un macchinario che fa un rumore a intervalli di 3 minuti. Così possiamo misurare la durata della sua esperienza. Ci è apparso molto credibile: tutto quello che ci ha detto gli era davvero accaduto”.

a2Resuscitati –

Dei 2.060 pazienti in arresto cardiaco studiati, 330 sono sopravvissuti e 140 hanno avuto esperienza di un qualche tipo di consapevolezza mentre venivano rianimati. I racconti, però, non sono tutti uguali. Alcuni pazienti infatti non ricordano dettagli specifici, ma sembrano emergere dei temi comuni. Un “resuscitato” su cinque ha sentito un insolito senso di pace e quasi un terzo ha avuto la sensazione che il tempo rallentasse o accelerasse.

Alcuni hanno ricordato una luce intensa, un flash dorato o un grande sole luminoso. Altri ricordano paura o una sensazione come di annegamento.

Il 13% si è sentito separato dal corpo e altri hanno percepito un affinarsi dei sensi.

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Uno schiaffo all’amministrazione che lascia le tombe al buio

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i lumini accesi (un anno fa)

i lumini accesi (un anno fa)

Si dice che accendere i lumini di una singola tomba costi circa 20 euro, e che per l’illuminazione totale si spenda una cifra vicina agli 8 mila euro all’anno. Al di là delle cifre, si tratta comunque di una spesa… “evitabile” grazie ad un sistema che può portare gran sollievo alle famiglie di questi tempi costrette a risparmiare per far fronte alle tasse e a una vita diventate sempre più care. L’illuminazione tombale potrebbe infatti costare zero oppure pochi euro, se si collocasse dentro il cimitero dei pannelli solari capaci di erogare quel poco di corrente che serve a illuminare le lampade a basso consumo che il ministero ci ha già “regalato”.

Incredibile far pagare i lumini in tempi di pannelli solari!

Così scrivevamo il 10 novembre dell’anno scorso.

Cos’è cambiato da allora? Hanno forse accolto il nostro suggerimento e dotato il cimitero di pannelli solari per far risparmiare i cittadini milenesi?

Ebbene sì, di risparmiare hanno di certo deciso ma in modo strano, della serie strano ma vero. Hanno stabilito di non pagare più quegli 8 mila euro l’anno semplicemente sciogliendo il contratto con la ditta che aveva avuto l’appalto di illuminare le tombe dei defunti. Risparmio sicuro, ma così le lampade votive sono del tutto spente.

Ma – per fortuna? -non tutte sono spente, come si può vedere passando la notte da quelle parti: qui e là arde qualche fiammella! Fuochi fatui, miraggi? No, su qualche lapide la lampada è davvero accesa!

Non si tratta di un miracolo, ma del frutto dell’iniziativa “privata” di qualche anima vivente di Milena che non si rassegna di lasciare al buio i cari estinti. Per fortuna c’è ancora qualcuno di spirito religioso che ricorda l’Eterno Riposo imparato al catechismo che alla fine in latino recitava così: “et lux perpetua luceat eis” vale a dire: “… risplenda a loro una luce perpetua”.

lux0

un lumino solare “fai da te”

E’ successo infatti che, prima uno, poi un altro e poi un altro ancora… citadini normali stanno facendo collocare sulle lapidi marmoree un piccolo apparecchio a batteria solare collegato con un filo alle lampade votive; l’aggeggio è dotato di timer per cui si accende al calare della sera per spegnersi al rispuntare del sole quando si rifà giorno. Non si tratta di una spesa eccessiva – ci dicono poche decine di euro – la quale garantisce qualche anno di durata. Poi basta sostituire la batteria scarica spendendo qualcosina.

Sempre meno di pagare 20 euro l’anno come ci consentiva il comune quando affidava alla ditta esterna l’appalto illuminante. Come anticipato, da qualche tempo l’appalto – non si sa il perché – non è stato rinnovato di fatto lasciando al buio le tombe dei defunti milenesi!

A chi si permette di far notare questa “manchevolezza” si dà in risposta un “però”… Però non facciamo più pagare ai familiari il canone, in sintesi la risposta. Ci mancherebbe altro che pagassimo per un servizio interrotto ed inesistente! Stupisce comunque l’insensibilità verso chi ha dovuto lasciare questo mondo e verso chi, ancora vivo,  vede quei lumi estinti e le tombe dei suoi  defunti al buio.

In quanto agli amministratori lasciamo il beneficio del dubbio: può darsi che non sappiamo del cimitero rimasto al buio (se lo avessero saputo avrebbero già provveduto si pensa) e quindi dedichiamo un brano di Sergio Endrigo che cantava “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”…

Se costoro hanno un cuore e rispetto per i (loro) morti non lascino ai privati l’illuminante iniziativa che dovrebbe restare pubblica, provvedano a dotare l’ultima dimore di una fonte solare che consenta di risparmiare e d’illuminare come si deve le tombe. Un segno pratico di rispetto verso i defunti di cui ricorre oggi la Festività.

In attesa che ciò si realizzi, si suggerisce di stornare per il cimitero parte della spesa che serviva negli anni scorsi ad illuminare il campo di calcio, quel calcio quest’anno venuto a mancare tristemente dopo anni di gloria.

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Come il pianto di Giosuè Carducci e di Rosario e anche quello di qualunque altro padre, sarà inesorabilmente negli anni un pianto per sempre, un “Pianto antico”

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Soltanto la Poesia racconta in elegia lo strazio in prosa per un figlio morto

Silvana Grasso

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mfPer molto, molto tempo, saranno solo domande, inutili, devastanti domande, alla ricerca d’una logica. Ma la logica non sazia il dolore, la logica è sorda al dolore, la logica non s’avventura nella sconosciuta parola del dolore. Hanno alfabeti diversi, impossibili stabilirvi un istmo di comunicazione, o solo comprensione, tra la logica e il dolore.
Non abbiamo risposte a molte delle domande di Rosario, inebetito straziato papà di Carmeluccio e Laura (inghiottiti dalle macalube di Aragona). Solo ad una domanda: «Perché li ho portati qui? » possiamo rispondere.
Quell’ innocuo avverbio, che papà Rosario indica con «qui», è scena e proscenio d’una irreparabile tragedia di vita, ben diversa da una tragedia di teatro, dove gli attori, esaurito il copione, calato il sipario, riprendono la vita che non hanno perso mai, se non nella magnifica simulazione della scena, che li vede morire accoltellati, insanguinati, straziati.
A sipario calato, si rialza l’attore con la rossa macchia di colore sul petto, che non è sangue, che non fu sangue, che non è morte, che non fu morte. Solo simulazione di sangue, solo simulazione di morte, fu.
Si ridesta dalla sua morte finta l’attore e torna, dietro le quinte, alla sua vita di sempre. Senza cerone, senza coturni, senza lama di spada a trapassargli viscere e cuore.
tragediaRispondiamo allora. Solo un anno fa, anche noi andammo, spinti da un cupio irresistibile di conoscenza, non sapremmo spiegarlo diversamente, in un«qui» che avrebbe potuto darci, senza che ne avessimo il minimo sospetto, la stessa morte dei bimbi.
Andammo, avidi di vederlo da vicino quel mondo sottoterra, che ridesta in ogni essere umano la magia della fiaba e la mitologia dell’ignoto.
Quel mondo in cui la Terra si torce, si contorce, prende forme improvvise, tozze, slanciate, acrobatiche, partorisce creature di fango nate da un invisibile prestigiatore, un illusionista che affascina grandi e piccini, senza distinzione d’età.
piantoIl nostro «qui», un anno fa, era in una provincia diversa, dal «qui» di Rosario, dei suoi bimbi. Il nostro «qui» era alle porte di Caltanissetta, nella contrada Santa Barbara, dove magici vulcanelli avevano la loro segreta vita d’eruzioni di paturnie, di sbuffi, nelle viscere della terra. Fu solo delusione, nulla vedemmo, non v’era traccia di vulcanelli, non v’era traccia di vita in movimento sommovimento metamorfosi, come speravamo.
La terra era arsa, solo brulla terra senza magia, immobile, orribile, nel suo viso rugoso di sterpaglia. Era sopito l’incantatore sottoterra, come spesso succede nelle favole che leggevamo, da bambini.
Fatale e desto era, invece, l’incantatore delle Maccalube. Le Maccalube, il «qui» di Rosario e dei suoi figli, in provincia di Agrigento. Aveva voce, un borbottio di viscere tuonanti, come succede al Circo, quando suoni e rumori sconosciuti impauriscono, ma più incantano, bimbi, amorevoli e grati al papà per queste meraviglie.
Meraviglia era far vedere a Carmeluccio e Laura una Natura che prende forma, da un attimo all’altro, il fango che diventa sorgiva, zampillo, scultura, sotto gli occhi increduli, spalancati, affatturati di figli e papà.
Una “lezione” di natura intensa e magnifica assai più che una lezione sui banchi della scuola, cercando immagini di sostegno sulla finzione d’un tablet.
Un’avventura, sarebbe stata, da raccontare, domani, in classe, a maestri e compagnetti, un’avventura ecologica biologica ma, soprattutto, magica.
tycheQuesta è la risposta che Rosario cerca, oggi, invano. Invano perché una Tyche imprevedibile, imponderabile, ineludibile ha sovvertito ogni «perché», sfuggito all’ amore d’un padre.
Rosario non ha fatto i conti con la Tyche, forse non ne conosce nemmeno il nome. Forse non l’ha incontrata mai in quelle cruente devastazioni, che il Mito racconta, e che i mortali e gli immortali subiscono.
Rosario ha fatto i conti col tempo, una bella giornata di sole. Rosario ha fatto i conti con le intenzioni, magnifiche: stupirli, affascinarli, i suoi bimbetti, d’una Natura che, per lo spazio d’un minuto o più, ha dimenticato d’essere madre, la grande Madre di chi nasce al mondo, oltre le forche del parto.

Non si racconta, non si può, l’orfanezza d’un padre, d’una madre, che perdono un figlio, restando mutilati a vita. Solo la Poesia può raccontare, in forma d’elegia, quel che, invece, è strazio nella prosa della Vita.

Come in “Pianto Antico” di Giosuè Carducci dedicata al figlioletto Dante bimbo di tre anni morto nel novembre del 1870, che tendeva la mano piccina al verde melograno. Pochi giorni dopo la sua morte, scrive il padre-poeta al fratello Valfredo ” avevo riposto su quel capo tutte le mie speranze, tutto il mio avvenire!”

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La Festa dei Morti

La festa dei morti

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Una delle più famose tradizioni palermitane è quella di ricordare e di festeggiare i morti. Ricordarli significa andare al cimitero, festeggiarli, invece, comprare giocattoli e dolciumi per i bambini.

I giocattolai della nostra città nei giorni che vanno dalla fine di ottobre al 2 novembre tirano un sospiro di sollievo, perché le casse vengono di certo rimpinzate.

La tradizione era quella che per la festa dei morti, i genitori regalavano ai bambini dolci e giocattoli, dicendo loro che erano stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti. Un tempo era d’obbligo comprare ai bambini la “pupaccena” o “Pupa ri zuccaro”, una satuetta di zucchero colorato rappresentante solitamente ballerine per le bambine e cavalli con rispettivo cavaliere per i maschietti.
pupaccena

La pupaccena trionfava al centro di un cesto pieno (più o meno) di mandorle, noci, melograni, castagne e fichi secchi, biscotti detti “ossa ri muortu” e la dolcissima frutta martorana fatta con pasta di mandorle dipinta che le mamme o le nonne preparavano per i propri bambini. E poi caramelle e cioccolatini e filamenti dorati o argentati che rendevano ancora più colorato il festoso cesto.

I giocattoli invece consistevano in pistole, spade, fucili, tamburi per i maschietti mentre per le bambine bambole, passeggini e pentoline.
Al mattino del 2 novembre tutti i bambini si svegliavano presto ed eccitati andavano a cercare il luogo dove i loro parenti defunti avevano portato i loro regali.  Altroché se non era una festa, era proprio un miracolo!
La sera prima, in alcune case, si usava nascondere la grattugia perché si diceva che i morti sarebbero andati  a grattare i piedi a chi si fosse comportato male.

Un tempo si usava anche recitare una filastrocca che diceva:
Armi santi, armi santi  (anime sante)
Io sugnu unu e vuatri siti tanti: ( io sono uno e Voi siete tante)
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai (mentre sono in questo mondo di guai)
Cosi di morti mittiminni assai“ (Regali dei morti mettetemene molti)
Nel tempo, a questi semplici regali si sono stati aggiunti e anche sostituiti giochi costosi e tutti ormai sanno che i morti non portano nessun dono. Sarà anche vero, però si è perso quel velo di mistero gioioso che aleggiava in tutte le case di un tempo.

feL’origine di questa usanza è certamente incerta, probabilmente il suo significato va ricercato nei culti pagani delle popolazioni che ci hanno preceduto e al banchetto funebre di cui si ha ancora un ricordo. Infatti in Sicilia, principalmente nei paesi, dopo la morte di un proprio caro e dopo la tumulazione è usanza che i vicini di casa offrano il pranzo ai parenti che hanno vegliato tutta la notte, il cosiddetto ” consulu “.
Dopotutto tutt’oggi nei nostri cimiteri non è raro vedere “tavolate” apparecchiate proprio sulle lapidi dei defunti e mangiate e… ma questo è un altro discorso.
Oggi a Palermo possiamo visitare le varie Fiere dei morti che vengono allestite in vari punti della città, variopinte bancarelle piene di giocattoli, vestiario e dolciumi tradizionali.

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Un pagano crocifisso

Silvana Grasso

Silvana Grasso

Prometeo crocifisso come Gesù, metafora di rivolta

Silvana Grasso

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Non nacque da Maria e Giuseppe, una casalinga e un falegname. Nacque da un titano, Giapeto, e da una figlia di Oceano, Asia o forse Climene. Non ebbe viscere di carne e sangue come Gesù, ma viscere di Mito. Ma anche lui, come Gesù, crocifisso ad una croce, fu crocifisso ad una rupe della Scizia desertica. Anche lui, Prometeo «il previdente», a questo conduce l’ etimo greco del suo nome, fu «ribelle» a poteri arcaici quanto consolidati e ottusi. Anche lui, come Gesù, ebbe morte e resurrezione.

images2ZN7N48ZMutuando il linguaggio filologico-letterario, il pagano semidio Prometeo d’un pagano Mito potrebbe considerarsi, per moltissime analogie, l’avantesto di Cristo redentore. Prometeo, eroe solitario, sfida l’ ottuso pre-potere di Zeus, e sta dalla parte degli uomini, fragili mortali inermi. Per loro ruba dalla fucina di Efesto il fuoco, essenziale per vita e progresso, essenziale per tirarsi fuori dalla latebre d’una infinita notte e avventurarsi nei «lumi» di scienza coscienza e conoscenza, assai più che lumi-illuminazioni.

Nascosto nel cavo d’una canna il Fuoco è principio di rinascita per la razza uomo, rinascita intesa come progresso decoro talento libertà autarchia. Pericolosissima arma l’autarchia che assolve gli uomini dal mancipio degli dei, li affranca dal bisogno, li avvia risoluti e determinati all’ anarchia. E l’ anarchia è sfida uomo/dio, l’anarchia è campo di battaglia per un duello mai concluso, finito/infinito, umano/ divino, mortale/ immortale. «Udite la miseria dei mortali prima, indifesi e muti come infanti, a cui diedi il pensiero e la coscienza, narrerò l’ amore del mio dono. Essi avevano occhi e non vedevano, avevano le orecchie e non udivano, somigliavano a immagini di sogno… vivevano sottoterra come labili formiche, in grotte fonde, senza sole, ignari dei certi segni dell’ inverno o della primavera che fioriva o dell’ estate che portava i frutti… indicai come si conoscono il sorgere e ilcalare degli astri, per loro scoprii il numero… mille cose inventai per i mortali» (ibidem).

Dall’ affrancamento da un dio ottuso nasce l’ uomo, la sua voce, la sua capacità di contraddittorio con gli dei, la fabbricazione di progetti autonomi che, per la loro realizzazione, non hanno bisogno di preci né di complici a sostegno. Nasce dal dono di Prometeo, il fuoco, la «metallurgia» del fare, del dire, del controbattere, dell’ insorgere, del risorgere. Risorgere liberi, infiniti, autonomi ed autoreferenti. Assai più che la metallurgia, tradizionalmente intesa, della ruota della tecnica e della tecnologia, che oggi si chiama computer, iphon, e simili.

Della trilogia eschilea non resta che il «Prometeo incatenato», mentre non ci sono giunte le tragedie « Prometeo portatore di fuoco», «Prometeo liberato». Unico caso di trilogia classica sopravvissuta è l’ «Orestea» di Eschilo.
Comunque lo si guardi, filosoficamente, «religiosamente», «romanticamente», nell’ ottica cioè del simbolismo interpretativo, Prometeo è comunque insuperata metafora di metabolé, di rivolta. «Di Zeus m’ importa meno che nulla… il suo regno non è lungo» (Prometeo incatenato), metafisica e religiosa, quasi il «legislatore» d’una «società giusta». «Zeus si prepara nozze che lo rovesceranno dal suo trono, lo annienteranno, nessuno degli dei può rivelargli come sfuggire a questa sorte: io solo. Riposi allora tronfio del tuono, di cui trema il cielo, lanciando la sua folgore di fuoco. Perché non basteranno tuono e folgore, quando cadrà per sempre e senza gloria…allora imparerà se servire è altra cosa che regnare» (ibidem).

Elsie Russel, «Prometeo», olio su tela, 1956

Elsie Russel, «Prometeo», olio su tela, 1956

Non conta sull’ appoggio di nessun dio Prometeo incatenato, che del suo fegato nutre incessantemente l’ aquila di Zeus, simbolo d’ un tormento infinito, d’ una pena esemplare per la sua hybris da scontare «nella annate senza fine» (ibidem). La corte degli dei è servile ubbidiente al tuonante Padre. Il servilismo è proprio il minimo comune divisore di questa fasulla regalità, che non consente a dei d’ avere la libertà di opinione, la parresia, la licenza del dire, che ormai hanno acquisito, grazie a Prometeo il magnanimo, i mortali uomini.
«Noi rabbrividiamo a vederti sfinire in tante pene. Tu non temesti Zeus. Nel tuo pensiero hai venerato gli uomini, Prometeo». Per il Coro, formato dalle cinquanta ninfe oceanine, figlie del dio Oceano, Prometeo è colui che non ha temuto Zeus, a fronte di tutti gli altri, compreso il loro padre, che lo hanno temuto e lo temono.

Prometeo è anche, in questa accezione, avantesto dell’ eroe alfieriano, titanico e solitario, anzi la solitudine è proprio condicio e, a un tempo, leva del titanismo. Non accetta compromessi Prometeo, che potrebbero salvargli la vita «patire odio da chi odia non è infamia. Dunque lanci la freccia di fuoco a doppio taglio, il cielo si squarci nel tuono e si dissolva, la raffica scuota il ceppo della terra dalle radici, l’ onda del mare con fragore brutale invada la via degli astri, lanci di peso il mio corpo nelle tenebre del Tartaro, nella ferra vertigine della Necessità. Ma per me non ha la morte» (ibidem).

(altro…)

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Necro elogi di personaggi famosi, epitaffi rigorosamente veri!

Lino Giusti

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Al Capone: Pietà, mio Gesù

Doroty Parker: Scusate la polvere

Frank Sinatra: Il meglio deve ancora venire

-Spike Milligan: ve lo avevo detto che ero malato

Walter Chiari: non piangete, è solo sonno arretrato

Aldo Fabrizi: Tolto da questo mondo troppo al dente

Lec: Il fatto che sia morto non significa che sono vissuto

Dentista buontempone: questa è l’ultima cavità che ho riempito

Alessandro Magno: basta questa fossa all’uomo cui non bastava il mondo

Robespierre: Passante, non piangere la mia morte. Se io fossi vivo, tu saresti morto

lino giusti.

– Lino Giusti: Dulcis in findus, in anteprima per gli amici di Crepapelle e di Milocca – Milena Libera, l’epitaffio che mi hanno preparato le mie figlie:

Ricorderemo sempre le tue frecciatine. Anche se da lassù prenderai la mira, ci mancherai …

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Dalla culla alla tomba

images (1)L’uomo e’ un pacco postale che la levatrice spedisce al becchino

 

(Ettore Petrolini)

 

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Dubbi sul… rosicone

rodo

Il rododendro è una pianta o un africano incazzato che non lo dimostra?

zap&ida

 

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