
Silvana Grasso
La colpevole innocenza di un genitore che porta alla tragica fine di un giovane
Silvana Grasso
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Impensabile che estrema bruttezza ed estrema bellezza possano convivere in un amplesso apollineo-dionisiaco, che solo un daimon può aver reso possibile, un dio, perché solo un dio può quel ch’è impensabile, impossibile, alle umane effimere menti. Impensabile, eppur succede.
Questo a Gela succede. La rozzezza, la bruttezza di oggi, convivono con una Bellezza che è, ben oltre, la bellezza e l’archeologica d’una greca polis, teatro di genti e Poeti, che anche il grande Eschilo onorò dei suoi versi, e vi morì, concimando della sua carne poetica l’arsura delle canne, la sabbia rovente e d’oro tra vagina di dune e ginestre. La malia, la fatturazione, la fascinazione di questa graeca urbs bellissima è ben oltre il dato storico-archeologico, innegabile, ben oltre la iattura d’una politica che ha, nei secoli, occultato, scelleratamente, la Bellezza, cui non era stata per tempo educata.
La sua Bellezza è oltre la sua Storia, è in quell’aura di perenne sacertà, profezia, mitologia, che ci fa restare sospesi tra Mito e Cielo, oltre i veleni chimici dell’ industria, oltre la stessa immondizia, e non pensiamo all’ immondizia differenziata e non, pensiamo all’immondizia etica, per cui non c’è discarica.
Tutto questo Totò Scerra non poteva saperlo. Lui, nato a Gela, studente al secondo anno d’un corso per idraulici, che potesse affrettarne lavoro e matrimonio, magari intorno ai venti, lui che di anni ne aveva solo diciassette, non poteva saperlo questo, né serviva sapere l’eziologia d’una simile Bellezza. Non ha avuto neanche il tempo di capire che moriva, mentre il suo motorino lo schizzava a terra, tra via Tevere e via Venezia. Che per l’ultimo istante lo vedeva quel cielo di Gela, tratturato da tramonti magici, da quelle varici rosse, che ne attraversano l’orizzonte come la coscia d’una femmina. Totò sapeva solo che era bella la sua città, bella e difficile. Ma impossibile farne a meno. Per lui, senza lievito di Mito e Letteratura, come per noi, contaminati da Mito e Letteratura, impossibile farne a meno. Come impossibile capire se più è stupro o atto d’amore quel cordone emotivo che, inutilmente, cerchiamo da anni di recidere. Per magia, una magia di quelle raccontate dalle favole, ricresce «più che prima» e, poco a poco, diventa fune al collo, cappio per moribondi che non vogliono morire.
Perché parliamo di Totò, vissuto così poco che solo il suo quartiere«Settefarine», alla periferia di Gela, potrebbe raccontarcelo bimbo, adolescente. Non oltre. Perché oltre non è andato, se non con la fantasia o la fantasticheria. Acheronte lo ha chiamato a sé, quasi bambino, seppur già innamorato, già fidanzato. Settefarine è un piccolo mondo che ancor mantiene inalterate le usanze siciliane d’un secolo fa. I giovani si sposano poco più che ventenni, fanno figli, che sembrano loro fratelli, e col mondo di Gela-città «colloquiano» per il comune uso di tablet, iphone, facebook. Questa la minima comune lingua con l’altra Città, quella che sforna laureati, «annozionati» di greco latino matematica estimo.
Parliamo di Totò perché la sua pazzesca morte ratifica la perennità inconsunta del Mito. Totò, sul suo motorino, si è scontrato (tragedia nella tragedia) con il padre della sua ragazza, trasformando, in un solo secondo, un suocero galantuomo in un «colpevole innocente». Uno dei capisaldi del «sentimento del Tragico» greco è proprio la colpevole innocenza che, per volontà d’un dio, offeso dalla hybris d’un mortale, punisce lui, la sua innocente stirpe nelle annate senza fine, proprio all’infinito, e non c’è lysis che non venga dal dio medesimo. Questo a rimarcare la distanza tra umano e divino, mortale e immortale, spesso dimenticata, obliata, dagli eroi che, per gesti eroici straordinari, perdono di vista la loro effimera natura umana, e si credono pari agli dei, dispensieri del Bene e del Male, giustizieri all’occorrenza«l’ equilibrio e il rispetto degli dei sono la cosa più bella: per giunta, sono, credo, il possesso più avveduto per gli uomini che sappiano servirsene. (Euripide, Le Baccanti)
Potremmo citare infiniti miti, ma scegliamo il mito d’ Agave, innocente assassina del figlio suo Penteo. Scegliamo Agave perché nulla è più inaccettabile d’un figlicidio, nulla più ripugnante alla coscienza di credenti o non credenti, onesti o delinquenti, bianchi o neri.
Nella tragedia euripidea «Le Baccanti», crocevia di conversioni e convessioni, implosioni ed esplosioni, filosofico-religiose, Agave è il dominus delle Menadi-Baccanti, le devote del dio Bacco-Dioniso. Creatura assai poco «olimpica», eccedente la comune «divinità», Bacco genera proseliti e diffidenti nella sua ormai sconfinata diaspora. A differenza di Zeus, rozzo marcantonio dell’accoppiamento animale, negato all’arte della seduzione, parimenti votato alla carne femminile o maschile, Dioniso è geniale nel sedurre, aristocratico, creativo. Generoso con chi gli si sottomette, implacabile con chi gli è ostile, a tal punto che non esita a servirsi d’una madre, sua fidata baccante, per la sua feroce vendetta. Vendetta atroce, per cui una madre, senza averne coscienza alcuna, uccide un figlio, sotto l’invasamento causato dal dio; invasamento pari, oggi, ad uno sballo da cocaina o lsd.
Le illustrazioni di questa pagina sono di Totò Calì
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