Novant’anni fa si celebrò nella nostra Corte d’Assise il processo per l’assassinio di Gigino Gattuso rimasto vittima in una rissa: ecco come la sentenza mistificò i fatti
E un colpo di rivoltella sparato da mano amica creò il “martire” fascista
Walter Guttadauria
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Nel novembre di 90 anni fa Caltanissetta ospitò in Corte d’Assise un processo che ebbe eco in tutta la Sicilia e anche oltre Stretto, perché si trattava di giudicare il presunto assassino di un giovane “martire” fascista, il diciottenne Gigino Gattuso: ad essere accusato della sua morte, il muratore socialista Michele Ferrara.

Gattuso
Fu uno dei casi più controversi per i tanti – diremmo oggi – depistaggi che vennero messi in atto, prima che si arrivasse alla sentenza finale, che fu quasi un compromesso tra la verità dei fatti e la “ragione” del regime allora in auge. Andrea Camilleri ne ha tratto anni fa lo spunto per scrivere, con la sua consueta maestria, il romanzo “Privo di titolo” (Sellerio, 2005).
Un sorta di grande bluff, dunque, come all’insegna della mistificazione era stata la presunta dinamica dei fatti che avevano portato alla morte il giovane avanguardista durante uno scontro tra lui – in compagnia di un paio di amici fascisti – e il muratore. Nella rissa un colpo di pistola aveva colpito il giovane alla testa, non lasciandogli scampo, e di ciò fu accusato il Ferrara: ma su chi gli avesse realmente sparato sarebbe rimasta, appunto, solo la “verità” processuale, ben lontana da quella storica poi appurata, e cioè che a colpirlo – per sbaglio – era stato proprio uno dei suoi amici.
La morte di Gattuso, avvenuta nell’aprile 1921, fu ovviamente mitizzata dal regime e la città la visse con forti passioni: testimonianza immediata ne furono i gravissimi incidenti – con vittime innocenti – verificatisi durante i funerali del giovane e i disordini dei giorni seguenti con vasta eco nel resto dell’isola e non solo. Ma eccoci alla fase processuale – svoltasi tre anni dopo i fatti – condotta in un clima di tensioni e di intimidazioni, con la ricostruzione dell’omicidio effettuata dalla Corte d’Assise nissena, la passerella di testi ambigui, la discussa sentenza finale.

Michele Ferrara
E’ il 14 novembre 1924 quando inizia il processo a carico del Ferrara, fino ad allora recluso in carcere. Grazie al sostegno economico dei compagni di partito, il muratore può disporre di un collegio di difesa che comprende alcuni rappresentanti illustri del Foro siciliano: primo tra tutti l’avvocato agrigentino Calogero Cigna, comunista, professionista di chiara fama, cui si affiancano i locali Calogero Roxas, Vincenzo Vizzini e Giulio Marchese Arduino. Gli avvocati di parte civile sono Lilly Giarrizzo e Michele Maienza. A presiedere la Corte è Emanuele Denaro, con pubblico ministero Paolo Aprile procuratore generale: e c’è la folla delle grandi occasioni ad occupare il palazzo Moncada Bauffremont, all’epoca sede degli uffici giudiziari.
Chiamato a deporre, Ferrara proclama la propria innocenza, così come ha fatto fin dall’epoca dei fatti: riferisce di avere sì fatto fuoco con la sua rivoltella, ma solo a scopo intimidatorio per sottrarsi alle percosse dei fascisti. Dopo di lui tocca a Salvatore Gattuso, padre dell’ucciso, e la sua è ovviamente una condanna senza appello del Ferrara, che a suo dire ha proprio preso la mira per colpire alla testa il povero Gigino «proprio come fa il beccaio che col pugnale in pugno cerca il cervello del bue per colpirlo ed atterrarlo»: così si legge nel periodico locale “La Vespa” che seguirà il processo fino alla sentenza.
Si susseguono le testimonianze, tra cui quella di Santi Cammarata, uno dei fascisti coinvolti nel tafferuglio, che sostiene che sia lui che gli amici al momento della rissa non avevano alcuna arma: una testimonianza che lascia molte ombre, come quelle di altri testi escussi.
Dopodiché tocca agli avvocati, ad iniziare da Giarrizzo per la parte civile, e il suo è un duro attacco all’imputato, che così si conclude: «Michele Ferrara, il sangue di Gigino Gattuso è sopra di voi, nessuna testimonianza spudoratamente mendace, come nessun oceano può cancellare la macchia di quel sangue…».

La caricatura di Calogero Cigna l’avvocato che lo difese al processo nel 1924, e (sotto) quella di Lilly Giarrizzo legale di parte civile, due dei protagonisti del dibattimento.
A rincarare la dose, nelle successive udienze, è il pm Aprile: «Fu Ferrara ad uccidere, ad uccidere ferocemente, tutto è contro di lui, del suo folle gesto, che merita una adeguata punizione».
Ed eccoci ai legali della difesa, il cui intervento si svolge in un’aula quanto mai gremita di pubblico giacché il nome di Cigna è di quelli che richiamano l’attenzione generale: e in effetti l’arringa dell’illustre togato, che confuta con sapienza le tesi dell’accusa, fa registrare una svolta clamorosa. Comincia col rimarcare che, in sede di perizia, si è rilevato che il proiettile estratto dalla testa del Gattuso non si adatta alla rivoltella sequestrata al Ferrara, per cui è stato esploso da un’altra arma. E prosegue riferendo delle intimidazioni rivolte ai testimoni della difesa «portati a testimoniare come se fossero in stato di arresto», e soprattutto del fatto che alcune persone hanno visto «luccicare più di una rivoltella» e «un individuo alto vestito di bianco e col cappello floscio tenere in mano un’arma…», una descrizione che ben si adatta al Cammarata che ha dichiarato di non ricordarsi nemmeno di com’era vestito quel giorno.
Ed ecco il colpo di scena, perché per Cigna è proprio il Cammarata lo sparatore e l’uccisore, pur se involontario, del povero Gigino.
La fine dell’arringa è accolta dagli scroscianti applausi della frangia di folla vicina al Ferrara, gli animi si scaldano e il presidente Denaro ordina lo sgombero dell’aula. Si prosegue nei giorni successivi, ma l’intervento di Cigna ha già decisamente influenzato il processo.
Il 27 novembre 1924 è il giorno del verdetto, pronunciato in un’aula stipata come non mai.
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