Nella sua sfida con la malattia Emma dà scacco all’untore
Silvana Grasso
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«Venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi! ». (“L’uomo dal fiore in bocca”, Pirandello)
Dalla scena della Vita alla scena del Teatro, e viceversa, il passo è breve, brevissimo. Spesso creature anonime, che non hanno imparato nessun copione d’autore, disperate disperanti questuanti, dalla Vita medesima battezzati attori, inscenano potenti drammi quotidiani, senza consapevolezza, né sostegno, di coturno o pallio.
Troppo esplicito, nient’affatto enigmatico, il titolo della novella “La morte addosso”, testo-zigote per l’atto unico, cui Pirandello diede il nuovo titolo “L’uomo dal fiore in bocca”, per la prima volta rappresentato al Manzoni di Milano, nel 1922».
Entrambi i testi onorano temono soggiacciono, esorcizzano, ma solo in apparenza, sua Signoria, la Morte, protagonista deuteragonista tritagonista, e oltre, della Scena teatrale e della Scena esistenziale.
«Nome dolcissimo… epitelioma, si chiama», enuncia all’ignoto avventore che, carico di pacchetti, aspetta un treno, il segnato, il destinato a caso, su cui la morte ha già centrato il suo mitra di luci fuochi suoni rumori frastorno. C’è solo da aspettare «otto o dieci mesi».
Il segnato, su cui la Morte ha già solfeggiato le sue rapide, in forma innocua, in forma d’un fiore, sbocciato tra l’umide crepe delle labbra. Labbra che hanno baciato pregato sussurrato succhiato il dolceamaro miele della Vita, in attesa del cianuro dolce della Morte.
Labbra che hanno mietuto latte di madre, di sposa, di sogno, di canto. Labbra mute e tuonanti. Labbra che gridano la bestemmia della paura. Fiorisce su quelle labbra, umide e calde, un cancro dal nome dolcissimo. Epitelioma, si chiama. Sconosciuto fiore, sconosciuto ermete di morte. Il segnato enuncia, per metafora-geroglifico, il neonato fiore che gli sboccia sulla bocca. Ma non va oltre. Non percorre l’etimo del suo cancro, quasi a volerne stabilirne, con questo stratagemma, con questa sapienza di lessico, una superiorità «intellettiva». I ruoli sono inamovibili irreversibili. Il supra non prende il posto dell’infra. Non c’è inversione possibile da dominato a dominante. Da servo a padrone. Non è partita che possa vincersi «culturalmente», intellettivamente, quella con la Morte. Non c’è partita, e non c’è tempo. Il poco che resta serve a misurarsi le forze, minime. Il disorientamento, massimo. L’entusiamo, già consunto. Si naviga nel buio, tra minacciosi spuntoni di roccia, senza la provvida bussola d’una stella cometa.
«Ho un tumore al polmone ma io non sono la mia malattia» (Emma Bonino, Radio Radicale). Non può chiamarsi epitelioma, il cancro di Emma, l’etimologia lo esclude. Ma sboccia lo stesso, sboccia dentro, invisibile «fiore» a occhi che guardano, scrutano, ammirano, ignorano. La pelle, che si vede, è integra, immacolata, in questo caso. Non c’è traccia di cancro sull’avventura del corpo. Cellule masnadiere hanno scelto la roccaforte dei polmoni per il loro assedio e, invisibili insonore, hanno già piantato le loro insegne. Ha radici fonde e profonde «il tubero» di Emma, che non resta muta sbigottita, che non ammorba di silenzio la sua avventura nella Tyche del nascere e morire. «Politicamente» lo affronta, gli volta contro il mondo. Il mondo che la ama o che non l’ama, che la stima o che non la stima.
La prima battaglia per Emma, che ne ha fatte tante battaglie, è comunicare, gridare, rompere «il silenzio degli innocenti», prima d’ogni strategia perfezionata, prima d’ogni protocollo, chirurgico e chemioterapico. Con la Parola, arma in cui è stata per tutta una vita soldato scelto, risponde al nemico rozzo, a corto di parole, uso a caverne e trappole. A vili agguati da predoni nei trivii bui.
«Io non sono il mio tumore. E’ solo una malattia, una delle tante sfide». Potrebbe averlo scritto un grande autore di Teatro, o potremmo averlo letto in un romanzo di questo secolo. La Letteratura, in passato, non era esplicita con la malattia. La malattia rendeva fragili, esposti ad untori-avvoltoi, pronti a disabilitare, per gogna di armi improprie, l’avversario forte potente temuto. E magari, prenderne il posto, fatto fuori ancor da vivo.
Questa è frase di Emma. Scopriamo così che la sua prima battaglia è contro gli untori, «cancro» pericolosissimo, mortale, che vorrebbero depotenziarla «politicamente», in nome del «fiore», d’improvviso sbocciato tra i polmoni. Scacco all’untore, dunque, e lo dà Emma, creatura d’altri tempi, tempi da “De officiis”, tempi da “Tusculanae disputationes”, votata alla passione della Politica, ma più alla politica della Passione. Ora l’untore è del tutto spiazzato.
Illustrazioni di Totò Calì