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Archive for 20 gennaio 2015

Nella sua sfida con la malattia Emma dà scacco all’untore

Silvana Grasso
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g2«Venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi! ». (“L’uomo dal fiore in bocca”, Pirandello)

Dalla scena della Vita alla scena del Teatro, e viceversa, il passo è breve, brevissimo. Spesso creature anonime, che non hanno imparato nessun copione d’autore, disperate disperanti questuanti, dalla Vita medesima battezzati attori, inscenano potenti drammi quotidiani, senza consapevolezza, né sostegno, di coturno o pallio.
Troppo esplicito, nient’affatto enigmatico, il titolo della novella “La morte addosso”, testo-zigote per l’atto unico, cui Pirandello diede il nuovo titolo “L’uomo dal fiore in bocca”, per la prima volta rappresentato al Manzoni di Milano, nel 1922».

Entrambi i testi onorano temono soggiacciono, esorcizzano, ma solo in apparenza, sua Signoria, la Morte, protagonista deuteragonista tritagonista, e oltre, della Scena teatrale e della Scena esistenziale.
«Nome dolcissimo… epitelioma, si chiama», enuncia all’ignoto avventore che, carico di pacchetti, aspetta un treno, il segnato, il destinato a caso, su cui la morte ha già centrato il suo mitra di luci fuochi suoni rumori frastorno. C’è solo da aspettare «otto o dieci mesi».

g3Il segnato, su cui la Morte ha già solfeggiato le sue rapide, in forma innocua, in forma d’un fiore, sbocciato tra l’umide crepe delle labbra. Labbra che hanno baciato pregato sussurrato succhiato il dolceamaro miele della Vita, in attesa del cianuro dolce della Morte.
Labbra che hanno mietuto latte di madre, di sposa, di sogno, di canto. Labbra mute e tuonanti. Labbra che gridano la bestemmia della paura. Fiorisce su quelle labbra, umide e calde, un cancro dal nome dolcissimo. Epitelioma, si chiama. Sconosciuto fiore, sconosciuto ermete di morte. Il segnato enuncia, per metafora-geroglifico, il neonato fiore che gli sboccia sulla bocca. Ma non va oltre. Non percorre l’etimo del suo cancro, quasi a volerne stabilirne, con questo stratagemma, con questa sapienza di lessico, una superiorità «intellettiva». I ruoli sono inamovibili irreversibili. Il supra non prende il posto dell’infra. Non c’è inversione possibile da dominato a dominante. Da servo a padrone. Non è partita che possa vincersi «culturalmente», intellettivamente, quella con la Morte. Non c’è partita, e non c’è tempo. Il poco che resta serve a misurarsi le forze, minime. Il disorientamento, massimo. L’entusiamo, già consunto. Si naviga nel buio, tra minacciosi spuntoni di roccia, senza la provvida bussola d’una stella cometa.

«Ho un tumore al polmone ma io non sono la mia malattia» (Emma Bonino, Radio Radicale). Non può chiamarsi epitelioma, il cancro di Emma, l’etimologia lo esclude. Ma sboccia lo stesso, sboccia dentro, invisibile «fiore» a occhi che guardano, scrutano, ammirano, ignorano. La pelle, che si vede, è integra, immacolata, in questo caso. Non c’è traccia di cancro sull’avventura del corpo. Cellule masnadiere hanno scelto la roccaforte dei polmoni per il loro assedio e, invisibili insonore, hanno già piantato le loro insegne. Ha radici fonde e profonde «il tubero» di Emma, che non resta muta sbigottita, che non ammorba di silenzio la sua avventura nella Tyche del nascere e morire. «Politicamente» lo affronta, gli volta contro il mondo. Il mondo che la ama o che non l’ama, che la stima o che non la stima.

g1La prima battaglia per Emma, che ne ha fatte tante battaglie, è comunicare, gridare, rompere «il silenzio degli innocenti», prima d’ogni strategia perfezionata, prima d’ogni protocollo, chirurgico e chemioterapico. Con la Parola, arma in cui è stata per tutta una vita soldato scelto, risponde al nemico rozzo, a corto di parole, uso a caverne e trappole. A vili agguati da predoni nei trivii bui.

«Io non sono il mio tumore. E’ solo una malattia, una delle tante sfide». Potrebbe averlo scritto un grande autore di Teatro, o potremmo averlo letto in un romanzo di questo secolo. La Letteratura, in passato, non era esplicita con la malattia. La malattia rendeva fragili, esposti ad untori-avvoltoi, pronti a disabilitare, per gogna di armi improprie, l’avversario forte potente temuto. E magari, prenderne il posto, fatto fuori ancor da vivo.
Questa è frase di Emma. Scopriamo così che la sua prima battaglia è contro gli untori, «cancro» pericolosissimo, mortale, che vorrebbero depotenziarla «politicamente», in nome del «fiore», d’improvviso sbocciato tra i polmoni. Scacco all’untore, dunque, e lo dà Emma, creatura d’altri tempi, tempi da “De officiis”, tempi da “Tusculanae disputationes”, votata alla passione della Politica, ma più alla politica della Passione. Ora l’untore è del tutto spiazzato.

Illustrazioni di Totò Calì

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MENSIS DIES

Tebaldo FABBRI – Elde BALZANI

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calenI Romani indicavano le date in modo diverso dal nostro.

Per ogni mese avevano tre date fisse:

1) Calendae = le Calende: il primo giorno del mese (dal verbo calare = chiamare), perché il Pontefice Massimo chiamava il popolo in adunanza per annunciare i riti religiosi del mese. Da Calende deririvò il nome di calendario.

2) Nonae = le None: chiamate così perché indicavano il giorno nono prima delle Idi (computato alla latina, contando cioè il giorno di partenza e quello di arrivo). Le Idi cadevano nella metà del mese, quindi il 5 del mese o il 7 per marzo, maggio, luglio, ottobre (mar-ma-lu-ot).

3) Idus = le Idi: il 13 di ogni mese, oppure il 15 nei quattro mesi di mar-ma-lu-ot. Il nome di Idi sembra derivato da un antico verbo di origine etrusca: iduare = dividere in due). Le Idi infatti cadendo verso la metà del mese, lo dividevano in due parti pressoché uguali.

Gli altri giorni intermedi vengono riferiti a queste tre date fisse con l’avverbio pridie (=il giorno prima) o postridie (=il giorno dopo) se la data indica il giorno immediatamente prima o dopo le tre date fisse, seguìto dall’accusativo Calendas, Nonas, Idus; e quando si tratti di altri giorni, con ante diem… e l’ordinale in cifra romana indicante il numero dei giorni fino alla data immediatamente successiva; se finalmente la data coincide con una delle tre date fisse, si ha l’ablativo.

Esempi:

  • cal1il I gennaio Calendis Ianuariis (coincide)
  • il 7 marzo Nonis Martiis (coincide)
  • Il 13 settembre Idibus Septembribus (coincide)
  • Il 15 ottobre Idibus Octrobibus (coincide)
  • Il 31 dicembre pridie Calendas Ianuarias
  • il 16 marzo postridie Idus Martias
  • il 21 aprile ante diem (a.d.) XI Calendas Maias (11 i giorni dal 21 aprile al I maggio)
  • il 4 marzo a.d. IV Nonas Martias (4 sono i giorni dal 4 al 7)
  • il 16 febbraio a.d. XIV Calendas Martias
  • il 7 agosto a.d. VII Idus Augustas
  • il 15 dicembre a.d. XVIII Calendas Ianuarias.

 

LE FESTE E LE VACANZE

da IMPERIVM ROMANVM

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12I Romani abbienti lavoravano poco e soprattutto avevano molte vacanze. Circa metà dell’anno era festivo, e il festivo coincideva quasi sempre col religioso.

Il pomeriggio trascorreva in genere tra passeggiate nei giardini imperiali o nei Fori, ma soprattutto nelle terme dove tra l’altro curavano la propria igiene. I Romani prendevano un bagno tutti i giorni, poveri e ricchi, perché le terme erano gratis.

Così si arrivava alla cena, di solito parca, consumata al tramonto, dopo di che si andava a letto, a meno che non si appartenesse alla classe più abbiente che faceva vita mondana banchettando con amici e affaristi fino atarda notte.

 

 

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Un po’ di RELAX

abc

Si dice:

“Dizionari bilingui”

o “Dizionari bilingue”?

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Soluzione

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papaDal pugno a chi offende la mamma al “fare figli come conigli”. Tre sarebbe il numero ideale. Papa Francesco regala un’altra immagine che resterà a lungo nella mente dei cattolici, e anche dei laici.

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Di ritorno dalle Filippine, da dove aveva lanciato un discusso monito a rispondere alle provocazioni, il Santo Padre sull’aereo che lo portava da Milano a Roma ha fatto il punto sulla “paternità responsabile”, spiegando ai presenti che “un cristiano non deve fare figli in serie”.

imagesCNOU002SCome riporta Radio Vaticana sul suo sito, Papa Francesco ha citato l’esempio di Paolo VI: “Lui guardava al neo-Malthusianesimo universale che era in corso che cercava un controllo dell’umanità da parte delle potenze.

Questo non significa che il cristiano deve fare figlie in serie – ha proseguito Francesco -. Io ho rimproverato alcuni mesi fa una donna in una parrocchia perché era incinta dell’ottavo, dopo sette cesarei: Ma lei vuole lasciare orfani sette?. Questo è tentare Dio. Si parla di paternità responsabile”.

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Italiani e miracoli

L’85% degli Italiani crede ai Miracoli

Gaetano Bonaventura
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m4Secondo un recente sondaggio, condotto da un’importante rivista, l’85% della popolazione adulta degli italiani crede nei miracoli e quasi la metà dichiara di esserne stata diretta testimone almeno in una occasione. In realtà, milioni di persone, tutti i giorni, in tutto il mondo, chiedono a Dio, ai Santi o anche ai defunti di intervenire sulla propria vita.
Naturalmente esistono anche coloro che non credono ai miracoli più di quanto non credano alla befana o al principe azzurro. Per costoro i miracoli sono residui della immaginazione infantile, ma per coloro i quali ci credono, che cosa sono esattamente i miracoli?
Molto spesso il termine “miracolo” viene usato a sproposito. Si dice, ad esempio, che il portiere della squadra del cuore, evitando un goal sicuro, abbia compiuto un autentico miracolo. Si è trattato veramente di un miracolo? Sicuramente no, è semplicemente un modo di dire.
In verità di frequente, nel linguaggio comune, si fa uso del termine “miracolo” per descrivere un fatto indubbiamente eccezionale, ma al quale non si può certo dare la qualifica di miracolo. Nel caso sopra citato il portiere è stato molto bravo (e forse anche un po’ fortunato), ma non ha certamente compiuto un miracolo.
Facciamo un altro esempio. Vincere al Superenalotto è oggettivamente molto difficile, ma se una persona vince dobbiamo pensare al miracolo oppure ritenere che, date le regole del gioco, qualcuno ogni tanto debba pur vincere?
m2Spesso, quando si parla di miracoli, si fa riferimento ad eventi che non presentano necessariamente carattere religioso, ma semplicemente escono dall’ordinario al punto da essere notati e suscitare in molti meraviglia e stupore.
Per il credente, invece, l’evento definito miracoloso è un messaggio, un fatto in cui scopre l’intervento di Dio in suo favore. Una settimana dopo il terremoto un uomo viene estratto dalle macerie ancora vivo. Egli dichiara, dopo essere stato portato in salvo, di aver tanto pregato Dio il quale gli ha fatto la grazia di salvarlo.
Ma tutti gli altri – ci si chiede – tutti quelli che sono morti, siamo sicuri che non abbiano pregato anche loro chiedendo a Dio di salvarli? Non lo sapremo mai, ma è certo che se si fossero salvati avrebbero dichiarato che la loro salvezza era effetto della preghiera.
C’è chi si salva perché prega, c’è chi prega e non si salva e c’è anche chi non prega e si salva lo stesso. Uscire vivo dalle macerie dopo una settimana è veramente di un miracolo? Indubbiamente per quella persona si sono messe in atto molte coincidenze fortunose, ma il suo anche in questo caso non può essere definito un miracolo.
m5Per miracolo si deve intendere qualche cosa che supera le potenzialità ordinarie dell’uomo violando le leggi di natura.
Per San Tommaso d’Aquino, ad esempio, miracolo era “tutto ciò che avviene per intervento divino scostandosi dall’ordine normale delle cose”. Quindi, nel caso della persona che è uscita indenne dalle macerie del terremoto, si sarebbe trattato di un miracolo se essa fosse uscita viva non dopo sette, ma dopo settanta o settecento giorni, perché si può sopravvivere senza bere e mangiare per sette giorni, ma non per due mesi o più.
Solo in quest’ultimo caso si sarebbe trattato infatti di un evento contro natura, fuori dall’ordine normale delle cose e quindi di un autentico miracolo. 

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Dibattito tra «Siamo tutti Charlie»

Tony Zermo

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mortiE’ in corso un dibattito tra chi dice che «siamo tutti Charlie» e chi dice invece che «se la sono cercata».

Scrive Aldo Cazzullo sul «Corriere della sera» : «I giornali latini ripubblicano le vignette di Charlie Hebdo. I giornali anglosassoni tendono a nasconderle, talvolta a condannarle. Corrispondono ad una diversa lettura della tragedia di Parigi e del passaggio storico che stiamo vivendo. Alcune di queste vignette sono efficaci. Altre non fanno ridere. Si possono criticare. Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà di espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione. Il contrasto tra il riso e l’integralismo religioso è antico di secoli. Umberto Eco dice che l’uomo è l’unico animale che ride, ed è l’unico animale che sa che deve morire; se il riso è l’antidoto alla paura della morte, è logico che il nichilismo islamista ne abbia orrore».

merdFrancesco Merlo su «Repubblica» non condivide: «Non mi piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hbdo, anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze. Non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico, appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione. Ma i terroristi non hanno ucciso per questo, se non ci fosse stato Charlie Hbdo avrebbero sparato altrove, anche in un bar. Parigi è piena di islamici, che però non sono terroristi». Merlo è stato a lungo a Parigi e conosce la società francese e le sue pulsioni.

imagesJ9MA57GWSu «Il Giornale» De Bellis scrive: «Bugiardi, quelli che dicono “Siamo tutti Charlie”. Mentono ora come mentivano dopo l’11 settembre e scrivevano “siamo tutti americani”. E’ una vigliacca menzogna. Dell’Occidente che si mette sul petto lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta».

Il giornale dei vescovi italiani, «L’Avvenire», sintetizza: «L’islam ha un evidente problema con la violenza verso i non musulmani e al proprio interno. Ricordiamoci anche di Peshawar quando un mese fa le maestre di un asilo furono bruciate vive davanti ai loro allievi».

Se volete un mio pensiero, dico che nel mio mestiere ho sempre seguito una regola: se metti a rischio la tua vita il gioco deve valere la candela, altrimenti lascia perdere. I vignettisti di Parigi vivevano di satira, ci credevano, ma potevano cautelarsi meglio.

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Latte al cobra

Una devota induista versa latte su un cobra come sacrificio per il festival annuale “Nag Panchami”, dedicato al culto dei serpenti.

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Allahabad, India, 1 agosto 2014. (AP Photo / Rajesh Kumar Singh)

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