Pino e Alda, anime accomunate dal «delirio amoroso» per l’Arte
Silvana Grasso
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«Io come voi sono stata sorpresa / mentre rubavo la vita / buttata fuori dal mio desiderio d’amore / Io come voi non sono stata ascoltata / e ho visto le sbarre del silenzio / crescermi intorno e strapparmi i capelli / Io come voi ho pianto / ho riso e ho sperato / Io come voi mi sono sentita togliere / i vestiti di dosso…/ Io come voi ho consumato l’amore da sola / lontana persino dal Cristo risorto» (Alda Merini, Ballate non pagate).
Non importa che gli artisti si conoscano fisicamente, non importa che un certo giorno d’un certo anno si siano dati la mano, siano stati a cena insieme, abbiano discusso, concertato, o solo si siano guardati con diffidente stupore. Non importa nemmeno che siano vissuti nello stesso secolo o a secoli di distanza.
Altra è la vicinanza per cui due artisti, che non si siano mai sbirciati, mai sfiorati, mai annusati. Sta in quel «delirio amoroso», cui si accede solo per Arte. Divina Arte.
Non sappiamo, quindi, se Pino Daniele e Alda Merini si siano conosciuti nel senso comune, ovvio, banale del termine. Avrebbero potuto conoscersi in ragione dello stesso secolo che li contiene, ma non faremo ricerche in merito.
Oziose, inutili ricerche che nulla aggiungerebbero a quella vicinanza emotiva che, per dirupi, voragini, sussulti, sobbalzi, oblii e insolazioni, ne fa due irrequieti magnifici inquilini della medesima anima.
Per entrambi un «vuoto d’amore» che è, che fu, sperma fertilizzante di Poesia. Indifferente che l’espressione della Poesia sia la sillaba o la nota, mentre il comune Dna è una metrica che scandisce, per Pino e Alda, Everest emotivi mai scalati. Vette vergini, ove nessuno abbia mai lasciato le sue insegne.
Si saranno letti, ascoltati, amati, o repulsi. Non necessariamente come Pino Daniele e Alda Merini. Lo avranno fatto come solitari utenti d’amore, lontani«persino dal Cristo risorto».
Per due come loro la vita privata scrive geroglifici incomprensibili ai più. Incomprensibili a quanti, esperti frequentatori di “tragitti” di vita conosciuti, familiari, temono l’incognita dell’Incognito, divelta poetica bussola per Pino e Alda.
Nel mosaico della vita non intersecano in modo armonioso le tessere, almeno non secondo il giudizio di chi pensa alla vita dell’altro come un puzzle da costruire, pezzo per pezzo, seguendo le istruzioncine del manuale d’accompagnamento.
Chi abbia avuto la ventura e l’avventura d’essere compagno/a d’anime simili, anche solo per una minuscola tappa di vita, faticosissimo può essere scriverne il diario di bordo, ma indimenticabile.
«Nessun rispetto per il morto, i vivi cercano solo il favore dei vivi», scriveva, ieratico e lapidario, un grande poeta giambico dal carattere selvaggio passionale rissoso, Archiloco di Paro, vissuto nel VII a. C..
In Poesia tutto appare lieve, bonificato dalla Bellezza, mentre in Vita non c’è bonifica dalla bruttezza, dalla gravezza. Mentre vorremmo solo il Gigante Pino su un’ideale altissima Pira, alta fino agli dei, fino alle Muse, che ardesse quanto e più del sanguigno cratere d’un Vulcano, veniamo molestati da pretestuose misere diatribe tra ex mogli, attuali compagne, parentame vario, implacabili inopportuni pm degli ultimi respiri d’un Uomo che sempre appartenne, comunque, ad altra Vita, a «più spirabil aere» che quello del coniugio, del divorzio, della separazione, della convivenza.
Il vero coniugio di Pino, non ratificato dai registri dello stato civile, coniugio eterno, fu con la Musica, la Poesia. Come Alda. Dalla Musica non divorziò mai, mentre “divorziò” da donne, corpi, abitudini, conformanze stili di vita impropri, che gli crescevano sull’anima come tumori sulla pelle.
Nell’avventura della Vita, Pino è andato sparato, dritto, come il soldato Harry Wilmans: «Così andai alla guerra nonostante mio padre / e seguii la bandiera finché la vidi levarsi / tutti noi acclamammo, acclamammo / ma là c’erano mosche e bestie velenose / c’era l’acqua mortifera / e il caldo crudele / e il cibo nauseante e putrido / e il fetore della latrina proprio dietro alle tende / dove ci si andava a vuotare / le puttane impestate che ci venivano dietro /…. e tra noi prepotenza, odio, abbrutimento / e giornate di disgusto e notti di terrore / fino all’assalto attraverso la palude fumante / seguendo la bandiera / quando caddi gridando con gli intestini trapassati / Ora c’è una bandiera su di me a Spoon River / Una bandiera / una bandiera! (Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River).
Oltre l’inferno della vita, con le sue prepotenze, i suoi odii, le sue meschinità, ambiguità, fragilità, noi tutti, che lo abbiamo amato, ascoltato, condiviso, chiosato, noi che ne abbiamo censito ogni sillaba, ogni nota, alla ricerca del senso perduto, avremmo voluto per Pino, come per il soldato Harry«Una bandiera, una bandiera»!.
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