di ANTONELLO PIRANEO
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Confusi nell’allegra caciara dell’agosto siciliano – tra turisti ammirati per le bellezze che la Sicilia offre, altri indignati per la spazzatura in strada, irriducibili dell’anguria in spiaggia, cultori della coda ai caselli, sacerdoti della movida vera o presunta – confusi in questa folla di umori, poi ci sono loro, i siciliani che tornano a casa, dalla Germania, dal Belgio, dalla Svizzera, dal Venezuela, dall’Australia, dall’altrove nel mondo che li ha accolti, dando loro quel lavoro e quindi quella dignità che qui non hanno mai trovato.
Sono gli emigrati, sono i siciliani “altri” di cui pochi parlano, dimenticati. Prima costretti a partire e poi rimossi. Fantasmi. Eppure loro, immancabilmente, fanno migliaia di chilometri all’incontrario per rivedere i luoghi della gioventù o per conoscere i posti di cui hanno soltanto sentito parlare, gli stessi in cui sono nati genitori, nonni, bisnonni. Tornano per abbracciare parenti magari mai visti ma sempre sentiti intimamente vicini. Nell’entroterra siciliano le piazze tornano a colorarsi delle sfumature di età diverse, si rivedono giovani e appena ex giovani, non soltanto bambini e anziani, estremi di una quotidianità arida.
Tornano sempre, questi siciliani “altri”, perché non c’è amore più forte di quello non corrisposto. E trovano una Sicilia troppo uguale a quella che hanno lasciato. Con gli stessi problemi, dall’acqua che manca alle strade interne polverose e improbabili, mentre ormai in quell’altrove ospitale viaggiano su treni lindi e superveloci.
Trovano, soprattutto, giovani pronti a fare oggi la stessa strada che loro e le loro famiglie fecero ieri e ieri l’altro. E li incrociano non nelle viuzze del paesino arroccato sull’impervio cocuzzolo, ma nelle strade delle città. Dalla valigia di cartone al trolley in cui piegare anche un diploma di laurea, in fondo è cambiato ancora poco per evitare di svuotare questa terra di braccia e cervelli, di prospettive e di sviluppo.
Ma una speranza ce la regalano proprio gli emigrati che rientrano in estate, testimonial inconsapevoli di una regione bella come poche altre e che potrebbe essere pure magnifica se riuscisse a fare sfruttare anche soltanto metà delle proprie potenzialità. Molti di questi diversamente siciliani farebbero carte false per tornare a casa, attratti da quel certo non so che è l’aria di casa, dall’indice molto personale del Fil (Felicità Interna Lorda) che spesso confligge con quell’altro e sinistro indice, il Pil, il Prodotto Interno Lordo. Alcuni lo hanno già fatto, dopo avere affrontato sacrifici e incognite in Paesi lontani.
Ecco, da qui si dovrebbe (ri)partire, dalla costruzione di un progetto che non faccia dei giovani siciliani i nuovi emigrati, che renda la scelta di studiare fuori una legittima opzione per acquisire competenze su cui poi potere investire qui e non una scorciatoia per sfuggire alla condanna del precariato, al compromesso dell’ambizione al ribasso.
Parafrasando Brecht, fortunato quel popolo che non ha bisogno di emigrati per sentirsi vivo.