I miracoli del frate che vide San Michele e ammansì la leonessa
Walter Guttadauria
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Fra’ Francesco, al secolo Vincenzo Giarratana, nacque a Caltanissetta il 4 dicembre 1570 da Francesco e Laura Grassotto: fece la vestizione nell’Ordine Cappuccino nel 1588 e morì a 75 anni nel convento nisseno il 4 dicembre 1645.
E frate Luigi scriveva che era stata fatta istanza al Padre Guardiano «che voglia mettere quel santo corpo di Fr. Francesco di Caltanissetta in loco separato, perché siccome in vita ha fatto diversi miracoli, così speramo che li farà dopo morto».
Una vita all’insegna dei miracoli, dunque, quella del frate nisseno, stante quanto tramandato dai suoi confratelli. Quello più noto, come s’è detto, rimane la (ripetuta) apparizione di San Michele, a tutti nota nella storia del culto nostrano del patrono.
Ma cos’altro fece di straordinario il frate durante la sua esistenza? Seguiamo sempre i documenti riproposti da Mendolia Calella.
Da testimonianze conservate nell’Archivio provinciale della Curia dei Cappuccini di Bologna si apprende che nel 1611 fra’ Francesco, in viaggio da Cammarata a Caltanissetta, incontrò un pover’uomo che aveva una bestia gravemente ferita, con i visceri di fuori: al che il frate la guarì applicandole al ventre la reliquia di San Felice da Cantalice.
Un altro episodio miracoloso era accaduto nel 1586, quando l’allora giovane Vincenzo si era recato a Monreale per chiedere l’obbedienza di entrare nell’Ordine Cappuccino. In viaggio su un carro di buoi, il futuro frate venne colpito ad un occhio dal corno di uno degli animali, rimanendo ferito in modo tale da non poter più condurre il carro che ad un tratto, privo di guida, cadde in un precipizio con tutti i buoi. Lui ne uscì praticamente illeso e dopo pochi giorni anche l’occhio guarì miracolosamente.
Nel 1605, sulla strada da Girgenti a Racalmuto, fra’ Francesco e il confratello p. Giammaria da Caltanissetta furono chiamati in casa da un ammalato che per i forti dolori si contorceva nel letto e che si raccomandò alle preghiere dei due frati. Questi gli impartirono la loro benedizione e, tornati in convento, pregarono per l’uomo il quale, l’indomani, si presentò loro perfettamente guarito.
Ma uno dei “miracoli” che ha contribuito anch’esso a creare un alone di santità attorno al religioso nisseno è quello tramandato dal cronista cappuccino p. Pellegrino da Forlì che negli Annali dell’Ordine riferisce un episodio con protagonista fra’ Francesco in giro per la questua: «Una lionessa, sprigionatasi dal serraglio del Duca di Montalto, entrò furibonda e minacciosa nella città di Caltanissetta, percorse alcune vie e giunse nel mezzo della piazza, ruggendo e girando gli occhi furibondi e sanguigni (…). I cittadini, impauriti all’ingresso di quell’ospite malaugurato e terribile, si chiusero nelle loro case (…). E mentre essi guardavano dalle finestre, ecco comparire in quella piazza deserta un Cappuccino. Era fra’ Francesco…». Accortosi del felino, ecco dunque il nuovo “miracolo” del frate secondo questa narrazione: «Come dunque la vide, con passo franco e disinvolto si mosse verso di essa, chiamandola in nome di Dio. La lionessa a quell’invito autorevole abbassò il capo superbo, addolcì l’occhio feroce e si accostò ai piedi di lui, quasi lambendoli per rispetto. Allora fra’ Francesco sgridandola dolcemente (…) le annodò al collo il suo cingolo; e così tenendola per mano la rimenò docile al suo serraglio. Tutti, trepidando osservarono il miracoloso spettacolo; e il Duca stesso che dal balcone del suo palazzo adocchiava quel fatto, esultava in cuor suo, giudicandolo un prodigio».
A conferma della veridicità di tale fatto c’è anche un riscontro nel manoscritto delle monache Benedettine di Santa Croce (citato dallo storiografo della chiesa nissena Francesco Pulci), anche se non viene citato l’anno.
Il saggio di Mendolia Calella prosegue con altre testimonianze riferite a fra’ Francesco impegnato nell’assistenza ai malati di peste a Palermo dove il morbo era scoppiato nel 1624. Si prosegue, poi, col riferimento all’apparizione nello stesso anno di San Michele a Licata sempre al cospetto del frate nisseno.
Questi, come detto, si spense nel 1645: «Il suo cadavere – scrisse il p. Pellegrino da Forlì – esposto al pubblico fu oggetto di grande venerazione; e chi tagliava l’abito e chi un pezzo di fune, chi i capelli e di altre cose che fossero attorno alla bara, per averne una memoria».
Il suo bastone, nei secoli successivi, sarebbe stato usato come oggetto taumaturgico e portato in giro tra gli infermi per invocarne la guarigione.
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