IL DOROTEO
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Nel settembre 1972, Alberto Ronchey mi spedì di nuovo in Sicilia per scrivere articoli sulla mafia. Prima di congedarmi, disse: “Dovresti cercare Giuseppe Genco Russo. Pare sia stato uno dei capi mafiosi dell’isola, un padrino importante. Sta in provincia di Caltanissetta e mi piacerebbe pubblicare un suo ritratto”.
Arrivato a Caltanissetta, pensai di andare a trovare un parlamentare democristiano della zona: Calogero Volpe, molto al corrente delle faccende siciliane. Abitava in una masseria di Montedoro ed era stato il sindaco di quel comune. Si arrivava da lui prendendo la strada per San Cataldo e Serradifalco. Per poi viaggiare lungo percorsi franosi e splendide montagne selvagge.
Volpe era un medico di 62 anni e aveva alle spalle una lunga carriera nella Dc. Deputato alla Costituente, era stato eletto alla Camera per ben sette volte. Aveva fatto il sottosegretario in un paio di governi. Ma soprattutto era un big della corrente dorotea, uno di quelli potenti in Sicilia per influenzare politica e consenso elettorale.
Prima di partire da Caltanissetta, gli avevo telefonato per chiedergli se voleva ricevermi. E lui mi aveva risposto di sì. Volpe mi aspettava all’ingresso della fattoria, tirata a lucido come una sala chirurgica. Aveva l’aspetto di un gigante: altissimo, massiccio, faccione carnoso, gli occhi nascosti da lenti affumicate. La voce era tonante, baritonale: da gigione parlamentare, ma anche da uomo abituato al comando.
- Mi domandò subito, dandomi del tu: “Quanti anni hai?”
- “Trentasette” gli risposi.
- “Allora potresti essere mio nipote. Ti chiamerò nipote Pansa”.
Gli chiesi della mafia di Caltanissetta. E lui si arrabbiò, bonariamente. Poi cominciò a spiegarmi con foga in che modo stavano le cose.
“Come te lo devo dire, nipote Pansa” ruggì. “Caltanissetta non è una provincia mafiosa. Da vent’anni, qui non c’è più un fatto di sangue, una rapina, un furto. Noi dormiamo con le porte aperte. Lo sfruttamento parassitario è finito, con la chiusura delle miniere di zolfo e con la scomparsa del feudo. Tutto questo la Dc l’ha combattuto e l’ha distrutto, grazie ai suoi uomini, grazie anche al sottoscritto che ti sta parlando. E’ soltanto a quei tempi che la mafia è esistita. Forse.”
Volpe notò il mio sguardo incredulo. E m’incalzò: “Mi senti o non mi senti, nipote Pansa? E’ finito, finito, finito! La mafia è un ricordo lontano. Ma siccome per decreto legge questa è una provincia mafiosa, voi del Settentrione correte qui e volete sapere della mafia. Buffoni, buffoni!”.
- L’onorevole precisò: “Il buffone non lo dico a te, nipote. Lo dico a certi personaggi di Roma che campano dicendo chi è mafioso e chi no. Voi dei giornali ci inzuppate il pane e alimentate la leggenda. E’ la stessa cosa di quando scrivete dei dorotei!”,
- Sorpreso, domandai: “Cosa c’entrano i dorotei?”
- “C’entrano, c’entrano!” tuonò Volpe. “Voi giornalisti siete tutti di sinistra. Scommetto che lo sei anche tu, nipote Pansa! E a voi i dorotei non piacciono. Quando scrivete dorotei, è evidente che ci dispeezzate. E’ come se scriveste cornuti!”
- “Cornuti? Ma non è vero!” repiclai.
- E Volpe, con la voce sempre più tonante: “Non contraddirmi, nipote! Certo che è vero, verissimo. Per voi dire doroteo è uguale a dire cornuto”.
- Partito dai dorotei, Volpe arrivò a parlare della Dc. E qui la sua analisi divenne più acuta. “Ti regalo un pronostico, La Dc durerà ancora per molti anni. Ma poi morirà a causa di una malattia che si sta già manifestando. E la malattia è la mancanza di autorità interna”.
Per farmi capire meglio, Volpe soggiunse beffardo: “La Dc è diventata come la masseria del curatolo Cicco. Tu lo sai ch è il curatolo? Vedo che non lo sai. Allora te lo spiego io: non è il mezzadro, ma qualcuno che sta sopra di lui. Uno che per contratto deve sorvegliare l’andamento di un’azienda agricola nell’interesse del proprietario. A volte ci sa fare, a volte no. In Sicilia c’è un detto: nella masseria del curatolo Cicco, che vuol dire Francesco, il primo che si alza comanda! E la masseria va a rotoli.
“Voi giornalisti non avete compreso niente!” scandì Volpe, puntandomi contro un dito massiccio come la canna di un fucile. “State lì a disinguere fra correnti e sottocorrenti del mio partito. E lo fate con faziosità. Quelle che vi piacciono le descrivete come un club di Premi Nobel. Per le altre fango! Invece la vera malattia della Dc è che non esiste più un capo autorevole. Il primo che si alza crede di essere De Gasperi. E pretende di comandare.”
Poi don Calogero, prima di congedarmi, mi spiegò dove potevo trovare Giuseppe Genco Russo.
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