Muli e conducenti tutti presenti!
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Questa è la frase di Totò Mattina, un vecchio del 1916 mio amico che ha fatto la II Guerra Mondiale. Me la ripete spesso quando ci si incontra per ricordarmi la sua vita grama di ex combattente come “conducente” di muli.
– Muli e condicenti.
– Tutti presenti.
Così rispondevano i militari all’appello, anche a nome delle loro bestie da soma alle quali erano legati da vero e proprio cameratismo.
Oggi nell’epoca della fanteria corazzata e delle truppe e dei mezzi avio-trasportati, il mulo, il più famoso ed efficace mezzo di trasporto sulle vie impervie, è caduto nel dimenticatoio. Vogliamo almeno per poco tempo fare rivivere quell’epoca ormai lontana più di un secolo.
Nel corso del primo conflitto mondiale si creò l’indissolubile connubio dei muli con i militari e soprattutto con il servizi di artiglieria alpina. Da quel momento, “tutte le campagne del nostro esercito, fino agli anni ’40, sono state illuminate da generosa, ininterrotta dedizione di questi quadrupedi dalle lunghe orecchie, votati a servizi durissimi, fedeli alla consegna anche quando le sorti erano in sfavore obbligandoli ad ogni sorta di rinunce”.
Durante la Grande Guerra il mulo rappresentò l’unico mezzo di trasporto attraverso i difficili sentieri alpini, che non a caso continuano a essere chiamati “mulattiere”. Autentico mezzo da combattimento, il mulo fu fondamentale per trasportare le armi e rifornire i reparti logistici in alta montagna. L’ultimo censimento ne dava presenti, durante la Prima Guerra Mondiale, ben 520.000. Gala, Grata, Goro, Follonica, Gina, Dro, Lara, Gisella: questi i nomi che più comunemente gli alpini attribuirono a questi compagni d’avventura e di fatica.
Tra tutti i muli soldato resterà nel mito Zibibbo, campione di longevità. Reduce della campagna di Russia, questo mulo ha vissuto per ben 36 anni. In tanti non conosceranno la sua storia, i più lo avranno dimenticato “nella gloria della vittoria”, ma per gli alpini resterà per sempre un eroe, contro tutti i luoghi comuni che hanno ad oggetto il mulo, considerato un simbolo di cocciutaggine e stupidità
Grazie mulo amico mio,
Ibrido, inelegante, nato dall’accoppiamento dell’asino con la cavalla; portavi l’obice e la cassa di cottura; il Cappellano, la posta e il ferito; la cassa di granate e l’esplosivo. Tu, tozzo, dalle orecchie grandi, grosse, dagli zoccoli alti e capaci degli impervi sentieri; la tua sobrietà e il tuo stomaco si accontentavano dei foraggi più grossolani. Tu eri l’amico prezioso e insostituibile dei soldati in montagna. Per tutto quello che hai significato lungo i nostri giorni di naja e di guerra; per le giaculatorie dei conducenti; per i telefori cui sei stato costretto quando non potevi traghettare in altro modo un corso d’acqua, e Tu eri terrorizzato e zampettavi e scalciavi nell’aria; per tutte le volte che gli uomini si sono attaccati alla tua coda in salita e hai lasciato fare tirando su anche loro. Per le cannonate che ti sei preso, filosofo come un soldato di razza; per il tuo sudore e le tue fatiche; per i venti di altura e il bianco delle nevi. In riconoscenza delle migliaia di tuoi compagni morti in guerra per noi; perché tu possa rivivere nel ricordo…
Sandro Baganzani
“Era impressionante udire sulla mulattiera, di notte, l’affannoso ansimare dei conducenti e dei muli, contrappuntato dall’ossessivo “sgnac – sgnac” degli scarponi e degli zoccoli”. “La notte l’è ‘na brutta bestia” osservava qualche conducente allorché si facevano corvè al buio. E, in effetti, quell’ansito collettivo nelle ostili notti albanesi pareva uscire dalla gola di un mostro sconosciuto. Dopo tre quattro ore la corvè raggiungeva le linee e per gli alpini che stavano lassù erano momenti di festa perché “ostrega, el ghè ben fra ste bestiasse el mul che gà la posta e il vin”. E il mulo che portava vino e posta era il primo ad essere liberato dal carico. Prima di riprendere la via del ritorno i conducenti si concedevano un’ora di sosta. In pochi minuti consumavano quel poco che avevano con sé, bevevano un caffè caldo e un bicchiere di vino, attaccavano le musette di biada al muso dei quadrupedi e poi si buttavano nel primo ricovero col telo tenda che sempre portavano al seguito e si addormentavano d’acchito. Tre quarti d’ora di oblio e poi, giù in discesa, per una nuova cura integrale di fanghi. La discesa era forse più penosa della salita in quanto la fatica delle ore precedenti aveva rotto le ginocchia e allentato i riflessi e più facilmente uomini e muli cadevano nel fango. Ma in coda alla colonna vi erano i conducenti e i muli che non potevano, non dovevano cadere. Erano quelli addetti al trasporto dei feriti, dei congelati, non di rado morti. Un pietoso carico umano che poteva essere smistato nelle retrovie unicamente a dorso di mulo”.
(da “Storie di Alpini e di muli” di Giuseppe BRUNO – L’Arciere Editore Cuneo)
Grazie a “teladiragno” per avermi riportato indietro di trent’anni, certamente meno esperiente di oggi ed ancora più ingenuo ma con le aspettative, i sogni giovanili ancora vivi, come in un fiaba, così come è stato quell’anno vissuto in Carnia tra i “musat” i muli, come li chiamano i Veneti ed i Friulani, ed ancora tra i “veci” ovvero gli Alpini congedanti o i “bocia” le reclute.
Di quell’anno serbo un bel ricordo e centinaia e centinaia tra foto e diapositive, scattate tra i monti del Friuli e del Veneto anche in alta quota, lungo le mulattiere, nelle radure, lungo i torrenti ed in parecchi luoghi vi erano, ancora, i segni della guerra che fu, ricordo che in cima allo Jôf di Montasio vi erano i resti di una postazione bellica scavata tra la roccia a 2700 metri di quota.
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ho un amico alpino SIMONETTI BENITO faceva parte del coro ana trieste NINO BALDDI, pure io canto in coro, spesse volte mi racconta della sua mula, questo mi commuove come ho letto questo foglio. x questo vi ho scritto mi son comasso tanti saluti ALPINI da Trieste alpina. by6by
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