«Ci sono tante armi a Campofranco»
di Valerio Martines
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Armi sotterrate a Campofranco ve ne sono chissà ancora quante. E la caccia all’arsenale della mafia militare campofranchese va avanti da parte dei carabinieri del Ros, che nelle campagne del paese cercano fucili e pistole in dotazione alla rinomata “squadra di morte” di Campofranco che sparava per la Sicilia prima dell’avvento dei killer di Gela.
Ad aprire questo squarcio sulla “santabarbara” della famiglia mafiosa campofranchese, è stato proprio Maurizio Carruba che di segreti ne sta svelando parecchi da quando s’è pentito. Omicidi irrisolti compresi. Armi che Carruba ha rivelato di avere gestito per conto del fratello Francesco, l’autista dell’allora reggente provinciale Lorenzo Vaccaro – fratello di Mimì – ammazzati vicino Catania.
«Mi sono ricordato – dice Carruba al pubblico ministero Stefano Luciani e al capitano Rosario di Gangi del Ros che lo interrogano – che avevo ancora qualche arma, che era in nostra dotazione. Più che altro di mio fratello, anche se io diciamo le accudivo… era un fucile calibro 22, poi c’era un silenziatore. E poi mi ricordo c’era un mitra e della dinamite pure, col lampeggiante questo che usano i carabinieri».
Il magistrato vuol sapere il periodo in cui Carruba maneggiava queste armi. «Allora – risponde l’ex netturbino dell’Ato Ambiente CL 1 poi licenziato – il fucile e il silenziatore e la dinamite antecedente alla morte di mio fratello, perché erano tutte cose che ce le aveva lui, che era sempre della famiglia di Campofranco, Lorenzo Vaccaro e qualche altro componente». E il collaborante indica un terreno di contrada Chiartasì come nascondiglio di questo arsenale ancora incompleto.
Il colloquio tra il pentito e gli inquirenti ritorna sul fucile di precisione. «Nonostante il calibro era piccolo – aggiunge il primo collaboratore di giustizia di Campofranco – c’era ‘sto cannocchiale sopra… mi ricordo che più di una volta l’abbiamo usato insieme a Angelo Schillaci, che provavamo il cannocchiale, che non riuscivamo a regolarlo». Il “collaudo” del fucile, ricorda Carruba, avvenne nella sua campagna e oltre a lui e al fratello v’era anche Angelo Schillaci. «Sparavamo contro un pannello a una quindicina di metri».
E sul mitra, invece, Carruba ha spiegato che «ce l’aveva Salvatore Termini, “Giovannazzu”, e l’aveva dato ad Angelo Schillaci forse per farlo pulire, non so forse per fargli fare un po’ di manutenzione. Dopo un periodo Giovannazzu richiedeva di nuovo ‘sto mitra, sempre, ogni volta che mi vedeva… “gli devi dire ad Angelo che mi deve dare il mitra”. Siamo nel periodo che è fuori nel 2000, prima dell’arresto di Mimì Vaccaro. Poi Angelo so che gliel’ha ridato. Me l’ha fatto vedere, non mi ricordo se mentre lo puliva». E dei candelotti d’esplosivo, Maurizio Carruba ha ricordato agli inquirenti di averli visti già al fratello. «La provenienza non la so. Mi ricordo che una volta mio fratello mi ha detto, nei soliti posti dove lui si accingeva a nascondere sempre armi là… mi disse guarda che ho messo là. Mi ha detto della dinamite e un lampeggiante quello dei carabinieri. Un giorno ci ho detto “me li fai vedere? ” e ho visto che c’era ‘sto lampeggiante e poi non se c’erano dieci, quindici candelotti di colore rosso, e la miccia dei detonatori col filo rosso. Sembravano nuovi… ».
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