Mantenere integro il potere di padre su uno sconosciuto figlio, ormai quasi adulto, permette all’eroe d’amarlo perché non ne avverte la sfida
Prima Benigni con Dante, ora Renzi con Omero
Silvana Grasso
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Silvana Grasso
Prima Benigni con Dante, ora Renzi con Omero.
La strada è quella, dopo un trentennio e passa di trazzere comunicative, barbare, selvatiche, riesumare i classici è l’unico strumento veramente innovativo, “rivoluzionario” in ogni spazio “politico”, spettacolo, Strasburgo, Palazzo Madama, che preveda la parola, wanax d’ogni progetto. Una parola-sirena, una parola piena, incantatrice, rievocatrice di Poeti e Miti consegnati dalla neogenerata generazione di internet e smarphone alla discarica del materiale da rottamazione, da smaltimento. Perché materiale vecchio, inutile, improduttivo.
La trovata è stata del Benigni, antesignano Ulisse-padre d’una “archeologia” di classici che porta, adesso, a cercare in discarica anche il Renzi-Telemaco-figlio. Sul fatto che Benigni conosca, e molto bene, Dante, tanto da recitarne a memoria i canti, non v’è dubbio. Molto dubbio resta, invece, sulla sua conoscenza reale dell’ Odissea, da parte di Renzi, anche solo nella parte citata, La Telemachia, che con i suoi quattro libri ed il suo epicentro apparente, Telemaco, costituisce, quasi un epos a sé all’interno dell’epos Odissea. Già il nome dell’opera, Odissea, è indicatore del numen Odisseo, sempre “presente” a Itaca, pur se assente da vent’anni. Telemaco resta, invece, un pretesto, resta quasi solo incistato nel vero tessuto connettivo di tutta l’ azione, che è il padre. Un avventuroso intraprendente padre dalla poliedrica methis, ingombrantissimo sotto il profilo psicologico.
Di sicuro Renzi, richiamando Telemaco “generazione Telemaco”, nulla più che una citazione, nel battesimo di Strasburgo ha mosso quella stagnazione ideale, concettuale e linguistica assai più che tutti gli altri suoi temi in scaletta, Israele e Junkereurobond compresi.
Il suo “Telemaco”, al di là di quanto conosca realmente dell’Odissea, ha fatto centro in quel sonnolento clonato linguaggio europolitichese che, seppellendo cadaveri, pensava stolidamente d’avere seppellito e raschiato dalla Storia del Mondo chi il Mondo lo ha fatto, se si guarda oltre la natura minerale e vegetale: filosofi, poeti, pittori, musici. Il messaggio è buono. Non si va avanti se non si torna indietro, il passaggio del guado alla ricerca della Grandezza e della Bellezza scelleratamente sacrificate, spesso solo da ignoranza.
L’Odissea, al di là della insoluta quaestio sulla sua oralità di genesi, si regge un traliccio compositivo solido, meditato e lungimirante riguardo a quell’aner, polutropon, Ulisse dalle mille risorse “creative”, la cui metafora sarebbe andata ben oltre la guerra di Troia e l’ estenuante ritorno ad Itaca. Un nostos periglioso ma anche esaltante per la sua bulimia “esplorativa” di uomo, di eroe, di maschio.
Un nostos, inesauribile motore di conoscenza per un uomo che, in omaggio alla tradizione mediterranea, di cui è metafora, deve tornare e riconsegnarsi a Patria e Famiglia, mentre non può resistere all’ adescamento di quell’aliquid novi che lo spinge, più o meno inconsciamente, all’ allontanamento, all’esplorazione, all’ itineranza, in fuga dalla stanzialità. Tornare è per Ulisse «bello di fama e di sventura» (“A Zacinto”, Foscolo), rinunciare, abdicare, fallire, archiviare il suo talento “oltreoceanico” in senso lato.
Un quadrato di terra come Itaca, pur emozionalmente significante, non può contenere l’incontenibile, non può essere il suo ergastolo. L’isoletta diventerebbe garrotta mortale alla sua inquieta e vagabonda epicità che fa, del Mare, la sua patria ideale, e questo sentimento magnificamente lo coglie Dante: «Quando mi dipartì da Circe, che sottrasse/me più d’un anno lì presso Gaeta/Prima che sì Enea la nomasse/né dolcezza di figlio, né la pièta del vecchio padre, né ‘l debito amore/lo qual dovea Penelope far lieta/vincer potero dentro a me l’ ardore/ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto/e de li vizi umani e del valore/ ma misi me per l’alto mare aperto» (Inferno, c. XXVI).
Il Mare è transumanza dal mondo reale al mondo irreale, il Mare è sconfinamento dalla miserabile corteccia umana, il Mare è il vero campo di battaglia dove i due duellanti, Dovere di re e padre, Libido d’uomo e “poeta”, combattono e combatteranno fino all’ ultimo sangue. D’un padre siffatto, la cui leggenda si è stampata come una sindone o come la scabbia sulle sue carni di bambino e poi di adolescente, Telemaco, fuori da fabula e metafora, potrebbe solo essere il parricida. Un padre tanto ingombrante, ancor più psicologicamente minaccioso in quanto assente, ipertrofizza lo sbilanciamento padre gigante-figlio nano. Di lui si parla ad Itaca come si parla sull’eccelso Olimpo.
Magnetica è la suggestione dell’eroe-padre assente, per quanto tiepido indistinto è il sentimento di figlio assente. Se eccezionale è il ménos d’ Ulisse, quella forza che, genita nell’ interiore dell’eroe, si propaga come fuoco fertilizzante alle sue membra, inesistente è, invece, nel figlio suo Telemaco, che resta invisibile a Itaca pur presente nella potenza dei muscoli.
Telemaco indugia nella sua adolescenza, vi s’occulta come le pecore nella grotta quando sfuggono il temporale e le sue folgori. Differisce ogni ipotesi d’azione, volta a cercare il padre, a cacciare i proci dalla reggia, o almeno provarci.
Se Atena non avesse preso in mano le redini dell’azione non avrebbe potuto appellarsi Renzi ad una “generazione Telemaco”.
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