
Giovanni Cassenti
Pubblico un racconto scritto dal cav. Giovanni Cassenti che riguarda una vicenda realmente accaduta nella prima metà del Novecento, dal finale incerto, come si intuisce dal titolo stesso: “Fatto che fu, dubbi che rimasero”.
Giovanni Cassenti (1886-1976) fu un credibile testimone del suo tempo. Profondo conoscitore di uomini e cose, ci ha lasciato molti scritti e poesie che costituiscono un’attendibile ricostruzione storica di alcuni eventi a cavallo dei due secoli.
“Fatto che fu, dubbi che rimasero” è la storia nient’affatto romanzata delle bande che imperversarono nel nisseno e, in particolare della famiglia milocchese soprannominata “Filuviu” contro la quale, alla stregua de “I Malavoglia” di Verga, si accanì una tragica sorte.
Il fatto l’ebbi anche raccontato da mio nonno con i particolari raccapriccianti dello sterminio delle bandi rivali, che ometto nel rispetto della sua volontà.
Alfonso Cipolla
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Fatto che fu, dubbi che rimasero
di Giovanni Cassenti
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Capitolo I
Fu l’ultima domenica di luglio che corse insistente la voce che a Peppi Filuviu era successo una qualcosa brutta. Fu trovato morto ammazzato su una trazzera che porta dal feudo Rabbione a Serradifalco. Erano le nove di mattina e nella vicina Campofranco la gente festeggiava il patrono San Calogero.
La storia di Giuseppe Filuviu s’intreccia con quella della sua famiglia.
Suo padre era un forestiero che verso la fine del 1800 si trasferì a Milocca perché aveva conosciuto e sposato una donna milocchese. Lei casalinga, lui agricoltore si volevano un gran bene e leali nell’affetto, misero al mondo cinque figli, quattro maschi e una femmina.
Stavano bene perché erano proprietari di oltre 5 ettari di terreni e avevano in mezzadria un’altra decina di ettari per cui si vantavano di mangiare del loro pane. Erano buoni con i buoni ma non si facevano posare le mosche sul naso.
Al padre piaceva passare certe serate in compagnia, farsi il bicchierotto in allegria per poi rincasare la sera tardi anche se la mattina lo aspettavano i lavori di campagna. Si portava appresso i figli idonei al lavoro, non esclusa la femmina ché la vita del contadino è dura e lo diventa maggiormente quando le annate male si prestano alla produzione.
Il vizietto del capofamiglia di farsi il bicchierotto, di chiacchierare nelle bettole e l’atteggiamento spavaldo non sfuggì a qualche spia prezzolata che riportò ai gendarmi le sue parole in libertà. Fu chiamato in caserma, interrogato su alcuni reati commessi nella zona, diffidato e invitato a curare gli affari della campagna e a rinchiudersi nella sua cerchia familiare.
Questo campanello d’allarme per l’onesto agricoltore fu come un fiammifero che col tempo doveva mandare in fiamme tutta la famiglia. Per parecchio tempo tenne a freno la lingua e il vizietto. Quando gli parve che le acque si erano calmate, ritornò a quel bicchiere di vino bevuto in bettola che per lui era la migliore medicina contro la fatica di dodici e più ore di lavoro massacrante.
Ma i nemici erano sempre alle calcagna e portavano in caserma informazioni prezzolate che lo dicevano autore di furti di bestiame così frequenti nel biennio 1924-1925. Mancavano sicure prove ma era sempre tenuto d’occhio e fatto oggetto di perquisizioni, e una volta si vide piombare addosso la squadriglia di Mussomeli.
In una delle tante perquisizioni, dopo aver protestato violentemente, perché brillo, venne arrestato, processato e condannato ad un mese di carcerazione.
Sopra questa famiglia si era aperta una tale frana che ne minacciava le fondamenta. I figli crescevano in questo ambiente, si stringevano al padre e promettevano di rompere la faccia a chi li voleva male.
Capitolo II
Il figlio Paolo sposò una ragazza di Montedoro e lì volle stabilirsi proprio per cercare un po’ di quiete, quella che non aveva vivendo con suo padre. Ma fu tempo sprecato, al destino non si sfugge, la polizia di Montedoro gli si mise alle costole, E così ora erano due e non una le famiglie Filuviu a essere sorvegliate.
Le forze dell’ordine avevano tanto da fare in quegli anni, i furti erano all’ordine del giorno, così decine di indiziati venivano convocati in caserma, presi a schiaffi, chiusi in camera di sicurezza a patire uno o due giorni a pane ed acqua per poi essere rilasciati con duri avvertimenti.
Nel 1927 a Montedoro venne uccisa una guardia giurata. Paolo Filuviu fu rinchiuso in caserma a patire schiaffi e fame per diversi giorni, si sentì male e chiese di essere visitato. Il medico intervenne con ritardo. Il giovane uscì dalla caserma portato a braccio dai parenti, raggiunse la propria abitazione ma in pochi giorni se ne dipartì lasciando nel lutto, nella disperazione e nella fame la moglie e i due teneri figli.
I parenti di Milocca gli dettero l’ultimo addio al cimitero. Il padre, la madre e i fratelli tornarono a Milocca imprecando contro la malasorte che gli aveva rubato il loro congiunto e rovinato la nuova famiglia.
I Filuviu diventarono più cauti, ostili a dire una parola, rinunciarono ai divertimenti e a comparire in pubblico, si isolarono ma vennero pure isolati, alcuni conoscenti non li trattavano più per paura della polizia, altri perché cominciavano a dubitare di loro. Ma rinchiudersi in famiglia non servì a nulla perché ormai ad ogni furto e danneggiamento si ritrovavano in casa le forze dell’ordine.
Nel 1928 la delinquenza e gli atti di mafia raggiungono proporzioni allarmanti. Mussolini è costretto a prendere provvedimenti decisivi: arrivano abili commissari e rinforzi, bisogna procedere a retate, arrestare tutti quelli con la fedina penale sporca, addebitargli ogni tipo di reato, salvo poi riuscire a provare la propria innocenza.
La provincia di Caltanissetta non fu risparmiata e gli arresti coinvolsero anche la famiglia Filuviu. Il capofamiglia e il figlio Peppe vengono arrestati, gli furono addebitati alcuni reati e l’associazione a delinquere. Dopo due anni di galera arrivò il verdetto del tribunale: cinque anni per il padre, due per il figlio.
Le cose non migliorarono dopo i cinque anni. La polizia li perseguitava sempre. Quale poteva essere il loro stato d’animo se non quello di ritenersi una nave in avaria, in balia delle onde che un giorno o l’altro sarebbe scomparsa in fondo al mare?
Il padre ultrasettantenne era sfinito dalle avversità e roso dai reumatismi presi in carcere, sempre accorato era costretto a muoversi per le necessità della vita. Peppe confidava la sua rabbia ad amici fidati e si sfogava dicendo che se gli sbirri e le spie non finivano di perseguitarlo da un uomo onesto sarebbe finito per diventare un vero delinquente.
Capitolo III
Nel 1937 fu taglieggiato un vigneto. Arrestano i tre fratelli Flavio. Dopo tre mesi di latitanza però vengono arrestati i veri colpevoli e i tre rientrano a casa più avviliti e arrabbiati di prima. Intanto muore la madre. Il padre secco come uno scheletro va alla deriva. I figli Luigi, Melo, Peppe e Narra reagiscono e sono pronti a lottare per fare cambiare le cose. Ma la musica non cambiò.
Nel 1939 ci fu un furto di bovini. Ancora una volta furono indiziati i Filuviu che, per fortuna, poterono presentare un alibi di ferro. Per Peppe questo fu il colmo, decise che morto sì sarebbe tornato in caserma, ma vivo mai. Agli amici cominciò a manifestare l’intenzione di darsi alla macchia e diventare uccel di bosco.
Aveva un fisico aitante, sapeva stare in compagnia ma ormai poco gli interessava la vita campata così, i suoi venticinque anni gli sembravano già troppi. Pensò che per troppo tempo era stato pecora e lasciò ancora per poco a Dio la possibilità di vendicarsi delle spie, poi decise di allontanarsi da quel posto maledetto.
Fu dichiarato latitante e quando nel 1940 venne chiamato alle armi e non si presentò. Disertore un motivo in più per cui fu ricercato con più accanimento dai carabinieri. La sua casa venne tenuta sotto controllo e perquisita più volte ma senza risultato. Ogni tanto Peppe di notte andava a trovare i familiari.
Peppe non si era allontanato troppo dal paese. Dolce con gli uomini dolci, amaro con gli amari si era fatto benvolere dai proprietari terrieri del triangolo Milocca – Mussomeli – Serradifalco i quali in cambio dei suoi servizi gli avevano regalato una bella giumenta. Portava con sé il moschetto e una pistola automatica ma anche gli attrezzi agricoli per passare alcune ore nei seminati del padre.
Nel 1943 successo l’Armistizio, molti sbandati si aggiunsero ai disertori. Anche le zone di Crocefia, Cannitello, Raffi, Conigliera, Sampria e Reina dove abitava Peppe furono invase da costoro. Dapprima isolati, si unirono in bande armate.
Non finivano mai di chiedere vitto e alloggio e rubavano pure bestiame. La loro presenza fu un momento di crisi per i proprietari terrieri e i coloni che li denunziavano ai carabinieri.
Per contrastarli e riprendere il controllo della zona venne rinforzato il nucleo carabinieri di Mussomeli che si misero a dare la caccia a questi banditi. Contemporaneamente aumentarono i pericoli per Peppe e il fratello Paolo che si erano dati alla macchia. I fratelli si trasferirono al feudo della Marchesa e da lì, avvisati da amici, si spostarono al feudo Rabbione girando tra Mussomeli e Serradifalco.