Il senso inverso di Peppe per la lingua italiana a lui straniera. Purtroppo
ENZO TRANTINO
.
Lo chiamavano “Peppe ‘u tistuni”, e non per una particolare conformazione anomala del cranio, quanto per la convulsiva, petulante, molesta curiosità che manifestava per la lingua italiana, lui che si era fermato alla “licenza della quinta elementare”. E dire che ne aveva fatta di strada all’estero.
Emigrato con la famiglia a soli dieci anni in Germania, trovò subito un’occupazione prima precaria, poi definitiva, al Consolato italiano della capitale, per essersi mostrato disponibile, incurante di orari – «questo lavoro è tutto straordinario» era l’orgoglioso commento che opponeva agli altri impiegati – pronto a recepire ogni miglioramento della sua modesta cultura di base.
Ma il suo dramma erano gli avverbi. Una maledizione. Incespicava in essi, li citava a sproposito, trovando però un astuto piano di fuga; parlava sufficientemente bene la lingua tedesca, e questo lo salvava, perché evitava la lingua madre, così giustificandosi: «quando ti trovi in un Paese diverso dal tuo, hai il dovere di uniformarti». Sembrava una massima quella convinzione, anche perché non conteneva avverbi.
Fece però l’errore di investire, assieme ai tre fratelli, che vantavano Peppe come “vice console”, risparmi e diversi guadagni in borsa, su orti e case nel paesello d’origine, a cavallo tra la provincia di Catania e Ragusa.
Perché l’errore, se le proprietà affittate per l’uso, fruttavano più degli interessi bancari? Per le ragioni che dovendo controllare “con l’occhio del padrone”, per le ferie di agosto tornava nell’antica casa, irriconoscibile per le tante migliorie che vi aveva apportato, anche con il contributo dei fratelli.
I genitori erano morti in terra straniera, però «spendendo un occhio», li vollero tumulati nella bella cappella di famiglia che avevano fatto costruire al cimitero. Tornando doveva perciò ricorrere alla lingua di origine, con l’incubo di quei maledetti avverbi. Durante la prima visita, andò in caserma per portare a comandante e militi specialità tedesche. Quando il maresciallo gli chiese cordialmente «sappiamo che lei ha fatto una bella carriera in Consolato», lui, forse per modestia – pentendosi dopo – cadde nella trappola, rispondendo «Purtroppo».
Nella sua testa, anzi nel suo “testone”voleva significare “malgrado tutto”, così volendo sintetizzare i sacrifici iniziali. L’esito fu un commento velenoso di Santino, il falegname, che stava sistemando un mobile nell’ufficio del comandante.
Riferì al circolo degli operai: «Le risate continuano ancora». Il presidente, invece e benevolmente, chiuse il pettegolezzo con un saggio commento: «Per Peppe l’italiano è quasi una lingua straniera. Ne parla un’altra. Quindi, non c’è da meravigliarsi».
Ma i “vitelloni” locali, studenti universitari “fuori corso” e soggetti vari intossicati dall’invidia, prepararono l’agguato.
Convinsero quel brav’uomo del sindaco a conferire diploma e medaglia a un «cittadino esemplare che aveva onorato all’estero la terra d’origine». Sembrava una pensata innocente e giusta, e tale era per il cavaliere Santoro, il sindaco, ma dietro c’era la bava di un reggimento di vipere, quelli che non avendo nulla di positivo da vantare, non perdonavano il successo altrui.
Studiarono, quindi, tramite un’emittente locale per maggiore diffusione, una trasmissione in diretta dell’evento, perché tale era per un paesino di trentamila abitanti. Dopo discorsi e “testimonianze”, il maestro Santuccio, vecchio insegnante elementare di Peppe, si spinse a spiegare «il riscatto della ingiuria apparente: tistuni».