IL PAPPAGONE DI SICILIA
di Pietrangelo Buttafuoco
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Con Totò Cuffaro la Sicilia era quello che era: l’ultima ridotta democristiana. Fino alle estreme conseguenze: con il presidente della regione marchiato come “mafioso” e – a oggi – persino detenuto.
Con il suo successore poi, quello di Grammichele, eletto nella coalizione berlusconiana (per farsi smacchiare in corso d’opera dall’onnipotente capo della sinistra antimafia, ossia il professionista Beppe Lumia), la Sicilia divenne quel che è ancora oggi: la fogna del potere.
Con Rosario Crocetta, infine, eletto nell’alleanza a guida Pd, la Sicilia è solo impostura.
Crocetta – nientemeno si propone alla leadership nazionale del Partito democratico, candidato alle primarie – copre il tanfo del pozzo nero di Sicilia con l’incredibile bugia della rivoluzione. Lui è Pirgopolinice. E come il miles gloriosus di Plauto è fanfarone, vanta vittoria contro le torri del male e le città della mafia, fa epica della propria missione, finisce sui giornali, non fa una legge che sia una, non governa, piuttosto – un giorno sì e l’altro pure – fa conferenze stampa e ogni sua sollevazione, alla fine, è sempre una sconfitta. O una retromarcia obbligata, quella propria del fanfarone.
Ascoltate questa. Il dieci di luglio, a Gela, gli americani commemorano il settantesimo dell’invasione della Sicilia. Alla testa della delegazione c’è l’ambasciatore David Thorne. Ci sono varie autorità locali, figuranti di ogni genere, alcuni dei quali vestiti da marine, quindi il pubblico delle occasioni e si fa ’sta cosa di battere le mani a chi, a suo tempo, fece i massacri ad Acate, dunque proprio lì, ma, ahimè, devo sorvolare…
E’ dunque, quella del dieci scorso, una cerimonia fissata per le undici e dove Rosario Crocetta – gelese per giunta, già celebrato sindaco per molti anni – arriva alle 12,45. Il governatore prende la parola che non doveva prendere e fa un’intemerata contro il Muos che è il sistema di comunicazioni satellitari di proprietà Usa (praticamente qualcosa di simile alla venefica antenna di Radio Vaticana) da installare a Niscemi e su cui Crocetta, contrarissimo, è stato alfiere, portabandiera e paladino dei No-Muos. Fino a revocare l’autorizzazione a suo tempo data all’esercito ’miricano.
Succede che nel frattempo che Crocetta parla, l’ambasciatore, capìta la mala parata, con un cenno del sopracciglio intima alla propria delegazione di prendere cappello e andare via. La sala si svuota e mentre due tipi – un ragazzo e una ragazza – si mettono alla nuda e altri cantano Bella Ciao, il Crocetta, come Pirgopolinice, sfodera tutti gli spropositi ma li annacqua in quel trambusto facendo la faccetta sorpresa: “Si sono un poco risentiti?”. Il tutto con la folla delle telecamere e dei cronisti spinti da un lato dall’urgenza di inseguire l’ambasciatore per strapparne delle dichiarazioni, pur nel digrignare dei denti; dall’altro, rassegnati a filmare e celebrare il presidente che, munifico, è pur sempre l’azionista di maggioranza dell’editoria siciliana in virtù delle sue cospicue erogazioni di dindi per la pubblicità.
Ecco, giusto questo racconto, non era finito sui giornali. Peccato.
Ma succede che Crocetta se ne torna a Palermo. Guarda fuori dal finestrino dell’auto in marcia e mormora: “Gli americani me la faranno pagare”. Diocenescampi già si vede in volo come Enrico Mattei, ad Hammamet come Bettino Craxi, avvinghiato ai baci di Totò Riina come Giulio Andreotti, dentro al tubo di un gasdotto come Muammar Gheddafi. E pure nelle mani di Ilda Boccassini, come Silvio Berlusconi, così si vede. Arriva a Palazzo d’Orleans che ha già passato in rassegna l’album di tutti quelli finiti malissimo per aver osato dire no agli Usa. Già immagina di finire nei dossier di Giulietto Chiesa e ripete: “Me la faranno pagare”.
Entra a Sala d’Ercole, l’aula del Parlamento siciliano, va incontro ai deputati e dice loro: “Obama ha chiamato, Obama!!!”. I deputati fanno tanto d’occhi: “Ti chiamò Obama?”. Tutto quel travaglio consumato in macchina mitiga il Pirgopolinice che gli divora l’anima e perciò cala il prezzo: “No, Obama ha chiamato Enrico Letta e gli ha detto che il Muos si deve fare. E glielo dobbiamo far fare”.
Un minchiataro, direte voi. No, un fanfarone, costretto a una retromarcia obbligata. Revoca la revoca e adesso è preso d’assedio dalle “Mamme No-Muos”, dal sindaco di Niscemi, dai pacifisti, dagli ambientalisti e da tutte le persone perbene che lo lavano con continue docce fatte di fischi e piriti perché quello che fino a ieri, in bocca sua, era Evangelo, adesso – sempre nelle sue stesse vezzose fauci – è diventato “demagogia”.
Si sfoga, il Vantone.
E l’unico suo karma è quello di finire sui giornali. La spara sempre più grossa e non c’è giornale che si faccia carico di una verifica per ogni sua pensata, l’ultima delle quali, quella della sacrosanta guerra ad Alitalia che sulle tratte siciliane applica tariffe scorsoie, rasenta il dadaismo se fosse teatro ma trattandosi di dura economia e crudo commercio è troppo patetica cosa. Ha pensato appunto di “mettere le ali” all’Ast, l’azienda siciliana trasporti, che non è proprio florida, non ha occhi per piangere e che con i propri bus dovrebbe svolgere il compito di navetta a disposizione di tutti i siciliani per raggiungere l’aeroporto di Comiso e lì prendere i low cost. Ancora una volta, gli industriali del ficodindia.
A parte il fatto che già da Palermo per Comiso e poi fare il benedetto volo si consumano – lisce lisce – almeno dieci ore. Il voler mettere in campo l’Ast, dove non hanno neppure il gasolio, e farne nientemeno che una compagnia di bandiera, presuppone un lavoro di ricapitalizzazione, matematicamente (è il caso di dire) impossibile per il bilancio pubblico e forse possibile sì per il privato. Ed è qui che la storia diventa interessante perché l’unico dei privati presenti nella compagine societaria è Antonello Montante, presidente di Confindustria siciliana che, con Lumia, l’altro protagonista della cabina di regia che sovrintende alle alchimie del Governo Crocetta, è garante concreto di quella rivoluzione che il Vantone dovrebbe fare mettendo la sua faccia sapientemente incatramata dalla cosmesi pop su cui Klaus Davi, il suo formidabile guru, esercita sapienza.
La storia è anche contorta e paradossale perché in Sicilia la mafia e l’antimafia servono sempre per le composizioni di potere. Montante, per via del suo interventismo, ha provocato l’insofferenza dell’assessore Nicolò Marino, un pm in aspettativa, a causa della spinosa questione delle discariche. “Privatizzare sì, però”, ha balbettato Crocetta temendo Marino. Ma ha fatto così anche con l’acqua, pubblica e più che pubblica per tutta la campagna elettorale e che, adesso, verrà pri-va-tiz-za-ta!
Non c’è che un turbinio di dichiarazioni e di contro dichiarazioni in questo frullato di comunicati e contro comunicati che fanno il flusso, manco fosse Joyce, del continuo chiacchierare del Vantone che sa stare solo sui giornali.
Non manca di santi in paradiso, lui. I giornali, tutti, quelli del continente soprattutto, non si preoccupano di verificare o, forse, si annoiano al solo sentire la parola Sicilia. Ha fatto cose che se solo fossero state fatte dal suo predecessore o da Cuffaro, avrebbero scatenato tutta l’informazione. Ha cacciato Franco Battiato, l’assessore al Turismo, per sostituirlo con la propria segretaria e se pure fosse valida l’obiezione – “e però è brava” – non c’è analista del mercato che s’interroghi su un fatto curioso assai, questo: l’Italia è al quinto posto nel mondo tra le mete scelte dal turismo internazionale e solo il 4 per cento di questo bel risultato scende a Palermo, a Catania o a Comiso. Chi viene in Italia, dunque, non sceglie la Sicilia e se per mettere al riparo l’assessorina, dopo aver assistito inermi al fallimento di Wind Jet, ci si scaglia contro l’Alitalia, accusata di rovinare il turismo con le sue tariffe, un poco più complicato diventa il discorso in tema del secondo polmone di ricchezza dell’isola: il patrimonio culturale, la vera Disneyland, su cui si rischia di vedere sfumare i fondi europei. Ma anche qui, anziché rilanciare con l’iniziativa politica, si fa solo turismo in procura. Perché Crocetta passa le sue giornate a fare denunce.
Non c’è un governo che governi in Sicilia.
Nessuno mostra preoccuparsene perché, suvvia, c’è il solito mantello invisibile eretto a protezione. E’ quello il cui tessuto dell’impegno civile si ricama con gli intarsi della legalità da declamazione. E’ il paramento più urgente al fine del rito d’impostura perché invariabile nel tempo – a prescindere dalla mafia stessa e della retorica che ne consegue – è l’antimafia di quelli dalla comprovata professionalità. In questa categoria specialissima e potentissima, dunque, convivono sia imprenditori (che si garantiscono una certa tranquillità), sia magistrati (che si assicurano una squillante carriera), onnipresenti con Crocetta, così come col suo predecessore, quello di Grammichele, se il 26 giugno del 2011, alla playa di Catania, davanti a duemila autonomisti faceva scattare il più fragoroso degli applausi a quello che per lui era: “Il mio fratello Peppuzzo Lumia!”.
Ai tempi, quelli del predecessore del Vantone, perfino Antonio Ingroia faceva sentire sulla giunta di governo il proprio salvifico alito, adesso Crocetta – secondo regola democristiana – da trombato qual è, l’ex pm, ne ha fatto un nominato nel mare grande del sottogoverno di Sicilia e l’impostura non conosce vergogna. Già la vicenda Ingroia, cui Crocetta voleva dare tutto, è perfino poca cosa perché il governatore dalle millanta conferenze stampa, ha in carniere ben altre beccacce e tutte di bracconaggio. Come quei dieci minuti di “Domenica In” (l’Arena), da Massimo Giletti, quando dice di aver sciolto le province, quando torna a Palermo e raddoppia il tutto nominando commissari di sua fiducia subito spediti in giro per le procure a fare denunce e poi non fare niente.
E poi dice l’impostura.