Quale che sia la forma, è rottura ufficiale per un matrimonio nato male: non per amore ma per forza.
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Col «discorso del predellino», preannunciando la nascita del partito unico, Berlusconi aveva di fatto proclamato l’annessione di An, e Fini s’era dovuto rassegnare, dopo un scatto di irosa resistenza, ben sapendo che comunque il Cavaliere gli avrebbe tolto grandissima parte dei colonnelli e delle truppe. Un’unione obbligata, dunque, un sodalizio tra ostili.
Poi, per Fini s’è trattato di lottare per la sopravvivenza. Il co-fondatore debole del Pdl rischiava di essere progressivamente emarginato dal feeling tra Berlusconi e Bossi, e ha preso a contrastare punto su punto la linea del partito, per guadagnare iniziativa e visibilità. Mirava a continuare a lungo in questo ruolo, che gli consentiva – nella veste di presidente delle Camera e di spina nel fianco del governo – un’eccezionale rendita di posizione.
Ma non era più possibile gabellare per legittimo dissenso interno il suo metodico martellamento. Altro che Bersani o Di Pietro: in mancanza di un vero progetto politico di un’opposizione anch’essa divisa, era l’ex leader di An l’oppositore più agguerrito del premier, che ieri ha detto basta. Tra loro non c’erano screzi, ormai, ma una «guerra dei Roses».
In quel film, i coniugi-nemici finiscono per morire entrambi nel parossismo dell’odio reciproco.
E Fini ha avvertito Berlusconi: nella separazione «non ci sarebbero vincitori né vinti, sarebbe una mattanza».
Può darsi, ma non è affatto sicuro.
Ognuno dei due adesso cercherà di capitalizzare la resa dei conti, Fini assicurando prospettive rosee ai suoi e opponendo contrattacchi alla cacciata, Berlusconi cercando di attrarre nella propria orbita i finiani meno determinati e tagliando nodi anomali come quello del Pdl spaccato in Sicilia.
Saranno i numeri a dire se perderanno entrambi, o se uno dei due prevarrà.
E a dirlo saranno soprattutto gli elettori, al voto anticipato, se la maggioranza si sgretolerà, oppure alla scadenza naturale della legislatura. Cessata l’ambiguità, i torti e le ragioni di questo divorzio saranno alla fine sanciti non dai litiganti ma dalle urne – come è giusto che sia – democraticamente
Di certo ha vinto l’Italia, si è scongiurato che l’Italia finisse nelle mani di “squallide consorterie”.
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