Australia, o apologia del viaggio /1
Qualche settimana mi è stato chiesto un “piccolo reportage sulle cose più strane (per un italiano), un articolo “non molto lungo” in cui “mettere in luce le cose (positive\negative\diametralmente opposte”. Non potrei scrivere un articolo del genere semplicemente perchè non è ciò che accade quando si è all’estero, durante un viaggio. Vedere il mondo da un altro punto di vista, intendo.
In quest’anno di scoperte, esperienze e maturazioni, ho continuato a guardare le cose con gli stessi occhi di prima. Solo più fanciulleschi, curiosi di imparare da ogni stimolo, e più assetati. E’ piuttosto ora che il tutto mi si presenta sotto un’altra prospettiva. Ora che sono tornato. Ora che sono a casa. Perchè il viaggio lo si esperisce sempre e solo in compagnia di sè stessi, e si torna – al contrario – accompagnati da nuove inquietudini.
Non voglio descrivere luoghi e paesaggi, persone o edifici. Voglio parlare di episodi. Di dialoghi. Di come certi aneddoti ti cambiano la giornata e, nel lungo periodo, agendo perennemente, sottotraccia, nell’inconscio, ti cambiano il mondo. Ergo: cambiano il modo in cui vedi il mondo. Incontri e situazioni che non avrei potuto vivere se non viaggiando.

L'interminabile autostrada! Sulla Stuart Highway i camion non si fermano MAI. Alle auto conviene seguirli - viaggiano media sui 90 - per evitare pericoli e sfracelli simili.

Aborigeno mostra un serpente. A prima vista sembra altro!
Come l’esserci imbattuti, durante le nostre peregrinazioni estive nel deserto australiano, in un cinquantenne scozzese in libertà vigilata che occupava quasi abusivamente una camera d’ostello nella monsonica e pluviale laguna di Darwin, a nord del continente. Questi stava aspettando l’esito di un processo che lo vedeva imputato per aver accoltellato un aborigeno mentre faceva da guardiano notturno in una sorta di centro psichiatrico.
Nella sua vita, come ebbe modo di dirci mentre tracannava bicchieri di scotch e altrettanto ne versava nelle nostre caraffe, aveva girato il mondo, e i tatuaggi sulla sua pelle grinzosa raccontavano più storie di quanto lui avrebbe potuto fare quella notte, biascicando sbronzo ma con affabile gentilezza e pazienza. Io e i miei due amici eravamo appena tornati da una serata al pub e costui, scottish genlemen, non appena ci ebbe visto metter piede sulla veranda, ci invitò nella sua camera ansioso di raccontarci della sua vita ed offrirci da bere. Finì male. Ovviamente. Ma quella notte ci parlò dei suoi viaggi nel sud est asiatico, delle sue ex mogli, del suo processo (a suo dire era stata autodifesa), delle condizioni degli aborigeni nel Northen Territory, di come la sua famiglia emigrò dalla Scozia (Edinburgo) ad un piccolo paesino dell’entroterra australiano, tutto campi bruciati e sterpaglie, silenzi e lenti ritmi quotidiani.
Imparammo, da quella chiacchierata. Nulla di esprimibile a parole, ma solo vaghe suggestioni che, la prossima volta un’occasione del genere dovesse ricapitare, ci faranno probabilmente scegliere di approfondire la conoscenza con un vecchio pazzo alcolizzato piuttosto che girargli la schiena e tornare a letto. Senza aver nulla ascoltato, senza aver nulla immaginato.
Questo è vero e buon giornalismo. Bravo
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